Lui è un gangster in fuga e in cerca di redenzione, lei una prostituta impaziente di riconquistare la sua libertà. Braccati sulle rive del Wild Goose Lake, insieme decideranno di giocare, per un’ultima e decisiva volta, con il loro destino… Tra Carné e Melville, un noir feroce e romantico, di abbagliante splendore figurativo.
Nan Fang Che Zhan De Ju Hui
Cina 2018 (113′)
Per la prima volta in concorso a Cannes, con il suo quarto film, il regista cinese Diao Yinan (vincitore a Berlino nel 2014, con Black Coal, Thin Ice) continua a scavare nella vena del thriller. Ambientato in una remota, e non ben definita, provincia della Ci-na, The Wild Goose Lake emana l’angoscia esistenziale di certi noir del dopoguerra e li evoca anche nella sua struttura portante, costruito com’è essenzialmente su una caccia all’uomo. Tutto inizia – di notte, ovvio – in una stazione sotto la pioggia, da cui si risale alla scaramuccia tra gang di giovani ladri di moto che innesca la trama. Diao dà alle scene di violenza con cui apre The Wild Goose Lake una qualità cool, anti esplosiva che fa pensare più a Tsai Ming Liang che a Johnnie To. Sopravvissuto a un agguato in cui uno dei suoi perde letteralmente la testa (il film sottolinea spesso la frivolezza quasi casuale da cui scaturisce la catena di eventi), il capobanda Zhou Zenong (l’attore televisivo Hu Ge), che sembra lievemente più vecchio e saggio degli altri, accecato dalla luce dei fari e dal sangue che gli scorre sul volto, spara e uccide per caso un poliziotto. Braccato dall’intero dipartimento di polizia – così tanti da sembrare un esercito e che hanno isolato la regione – Zenong inizia così la sua fuga disperata in un labirinto infinito di superfici e di texture (rami, intonaci de- crepiti, tende, foglie d’erba, un muro di pioggia), stagliate di luci primarie (verdi, rossi gialli spesso in controluce che delineano le superfici) che ha l’intricatezza di un videogioco dove un pericolo attende dietro a ogni angolo.
Diao complica il racconto con una serie di flash back, ma poi contrasta lo slancio verso il passato accompagnando il movimento del suo protagonista con brevi, ripetuti, carrelli orizzontali che sottolineano il fatalismo all’anima di questo suo film elegante ed elaboratissimo. Nessuno può fidarsi di nessuno. La guida di Zenong, nell’impassibile, fatiscente, giungla notturna di vicoli, stanze, scale, cortili, in cui si intravedono squarci di bestie feroci, vecchie foto in bianco e nero, una coreografia in piazza a base di suole di scarpa luminose e gli specchi deformanti sembrano una citazione diretta di La signora di Shangai – è Liu Aiai (Gwen Lun Mei, già nel film precedente del regista) una escort che lavora sulla riva dello stagno locale e che si materializza inspiegabilmente alla stazione al posto della moglie, che lui aveva mandato a prendere da un amico.
Diao ha attribuito alla fotografia in bianco e nero di una ragazza sdraiata in barca, il volto circondato incorniciato dai riflessi dell’acqua l’ispirazione di questo film, al quale avrebbe iniziato a pensare cinque anni fa ma che, ha rivelato in un’intervista a Screen, allora non era sufficientemente maturo per fare. E Aiai, più di Zenong, sembra il centro della sua attenzione- una cifra che vediamo improvvisare una danza, giocare in barca, sorridere sotto un grande cappello bianco, femme fatale esile come un cigno che, a seconda, aiuta o vende Zenong a quelli che sono sulle sue tracce ansiosi di incassare la taglia. L’inganno è così esplicito che i due a un certo punto ne parlano direttamente. Il loro è quasi un balletto coreografato da M.C. Escher.
Giulia D’Agnolo Vallan – Il Manifesto
Palma d’Oro, abbiamo il primo serio candidato (…) Dal penultimo Fuochi d’artificio in pieno giorno (Orso d’Oro a Berlino nel 2014), vengono gli attori Gwei Lun mei e Liao Fan, cui si affianca Hu Ge, star televisiva e inedito protagonista sul grande schermo: ha una faccia d’angelo, e come tradizione impone Diao l’ha voluto per incarnare un gangster, a capo di una banda di ladri di motociclette. Ferito dalla gang rivale, uccide un poliziotto e attira su di sé una caccia all’uomo imponente: riparato in una zona lacustre, vorrebbe farsi raggiungere dalla moglie, ma sarà una prostituta (Lun-Mei Kwei) a occuparsi di lui. Vendere cara la pelle – letteralmente – e se possibile redimersi, questo l’obiettivo, ma i tradimenti si sprecano, le vendette si incroiano, la giustizia reclama: Diao ha scelto le oche selvagge del titolo quale simbolo di libertà e possibilità, dato che sanno sia volare che nuotare, e sarà anche la peiyongnv (prostituta che esercita sull’acqua) a farsene carico. The Wild Goose Lake, per dare un’idea, è come un film di Jia Zhangke (Still Life, I figli del fiume giallo), ma girato meglio, con più stile, più fascino: nell’alveo del gangster-movie contemporaneo, Diao travasa tanta storia del cinema, da M, il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang a Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard, ogni inquadratura sa di antico e nuovo insieme, è colta e personalissima.
Ci sono soluzioni magistrali, quali gli animali che fanno da contrappunto a una sparatoria allo zoo, l’incontro sessuale tra questo bullo gentile e la disarmante peiyongnv, l’esecuzione con l’ombrello, e non da meno è il retroterra sociopolitico-economico della Cina oggi che senza precetti né preconcetti Diao rivela. Non ne avrebbe alcun bisogno, ma fronte Palma anche strategicamente The Wild Goose Lake è messo bene: le donne vi fanno bella e migliore figura; la Cina è sempre più importante nel cinema globale, e vanta una sola vittoria a Cannes, peraltro dimezzata: Addio mia concubina di Chen Kaige, ex-aequo nel 1993; dovrebbe essere pane fragrante per i denti del presidente di giuria Alejandro González Iñárritu…
Federico Pontiggia – Il Fatto quotidiano