Nell’inverno di Yanji, città al Nord della Cina prossima al confine con la Corea del Nord, il timido Haofeng, depresso e incline al suicidio, presenzia con poco entusiasmo un banchetto di nozze. Quando, per caso, si imbatte in Nana, giovane guida turistica, tra loro è subito amicizia. Così Nana lo coinvolge nella sua vita privata, frequentando locali notturni in compagnia di un altro amico Han Xiao. Un insolito ménage à trois, guidato dalla voglia di stare insieme e soffocare così le rispettive malinconie. La neve, il ghiaccio e le inquietudini di un’intera generazione della Cina contemporanea.
Ran Dong
Cina/Singapore 2023 (97′)


Tenero film sull’amicizia (sì, il triangolo c’è, ma è un aspetto della questione più sussurrato che spiattellato) e sul delicato momento di tre giovani chiamati a decidere del proprio futuro facendo pace con il proprio passato. Ed è forse proprio il trascorso di ognuno di loro il gancio di cui si serve Chen per costruire una drammaturgia semplice quanto si vuole, ma non per questo banale: Haofeng riceve telefonate da un centro di salute mentale che lo esorta a fissare un nuovo appuntamento, Nana ricorda i suoi trascorsi sulle piste di pattinaggio artistico, Han Xiao continua a vedersi riflesso nell’immagine di un uomo ricercato per rapina… Film dal tratteggio mai esibito, né per quello che riguarda gli aspetti più dolorosi né per i momenti più sensuali (magnifica la sequenza della ragazza sotto la doccia), capace di toccare corde emotive senza ricorrere a chissà quali incredibili espedienti. Tra scorrazzate in moto, serate nei locali, la tenerezza di un amore intenso e fugace, le cicatrici di un percorso – fisiche, come quella sulla caviglia di Nana, e interiori, come quelle di Haofeng, una vita di studi, un lavoro nella finanza di Shanghai, “e per cosa?” – che potrebbero rimarginarsi grazie alla libertà data da un incontro non previsto e la condivisione di attimi mai più ripetibili. Come la scalata interrotta verso l’Heaven Lake sulle cime della Changbai Mountain: gettarsi nel vuoto potrebbe essere un’opzione, ma non questa volta. E forse mai più.
Valerio Sammarco – cinematografo.it
Nella città di Yanji, l’inverno appare inesorabile: sotto il suo gelido tocco, ogni emozione sembra cristallizzarsi, come se non ci fosse spazio per il calore dei sentimenti umani. Ed è in questo reticolo geografico – ed esistenziale – che Hao Feng (Liu Haoran), in visita da Shanghai, trova nel fugace incontro con una guida turistica di nome Nana (la Zhou Dongyu di Under The Light e Better Days) e con Xiao, un inserviente di un ristorante locale anche lui alle prese con un disagio che lo sta soffocando, quella complicità emotiva a cui non sperava neanche più di anelare, e che promette di ridestare questo trittico di anime perdute dall’abisso in cui rischiano, così drammaticamente, di sprofondare. Partendo, perciò, dalle connessioni che si attivano tra i corpi dei tre protagonisti, Anthony Chen mette in scena con The Breaking Ice un ménage à trois intenso, innervato di uno spirito empatico deflagrante, che spingerà Hao, Nana e Xiao a confrontarsi con le proprie crisi più recondite, e a trovare, nel gelo di Yanji, la fonte di un’insperata catarsi. E a favorire la materializzazione, nel cuore del racconto, di queste sfumature purificatrici, è la natura culturalmente anomala di un territorio come quello dello Yanbian (…) Immersi, sembrerebbe suggerire Chen, in una realtà microcosmica, privata delle liturgie e dei codici culturali del paese da cui i tre provengono e dove hanno maturato le loro crisi (cioè la Cina Continentale) e che in virtù di questa sua anomalia geografica/spaziale – sfruttata saggiamente dal regista – presenta ad Hao e compagni un luogo dove affrancarsi, almeno momentaneamente, dal malessere che covano nel profondo del loro animo, e in cui diventa possibile afferrare la natura di un disagio apparso a lungo sfuggente. Anche se alcuni estetismi di fondo, ravvisabili soprattutto nella sua sezione centrale, rischiano di depotenziarne quell’afflato catartico presente in ogni immagine del racconto, quel disagio profondo riesce a rendersi quasi materico grazie alla precisione con cui Chen connette la tensione erotica che attraversa i corpi dei protagonisti alle coordinate di una realtà solo apparentemente impermeabile al calore delle emozioni.
Daniele D’Orsi – sentieriselvaggi.it