USA/Irlanda 2025 (100′)
BERLINALE 75° – Orso d’argento per il miglior attore non protagonista
BERLINO – Un uomo avanza barcollando, visibilmente ubriaco, in un sudicio vicolo di New York. Incespica, si rialza, cade a faccia in giù nel fango. È così che muore, dopo un breve ricovero in ospedale, il grande paroliere americano Lorenz (Larry) Hart, autore, assieme all’amico musicista Richard Rodgers, dei maggiori successi del teatro di rivista di Broadway nel periodo tra le due guerre, nonché di canzoni rimaste eterne, quali My Funny Valentine, The Lady Is a Tramp e appunto Blue Moon che dà il titolo all’ultimo sorprendente lavoro di Richard Linklater presentato a Berlino.
Il regista americano ci aveva già abituato a film fuori misura, diversi da tutti.Basti pensare alla trilogia Before Dawn, Before Sunset e Before Midnight, con le tre parti girate a nove anni di distanza l’una dall’altra, o meglio ancora Boyhood, laddove seguiva la crescita di un bambino da zero a dodici anni. E sempre esaltando il ruolo della parola. Così anche questo film è formalmente diverso, ma in senso opposto: tutto accade nello spazio di neanche due ore. Dopo un’altra breve scena iniziale, nella quale esce deluso e perplesso dalla rappresentazione del musical Oklahoma (il primo di Rodgers con la collaborazione del suo nuovo paroliere Oscar Hammersmith), il protagonista si rifugia da Sandi’s, famoso bar di Manhattan. Ed è qui che tutto accade, o meglio è raccontato, in una stretta unità aristotelica di spazio, tempo e azione. Seduto su uno sgabello, spalleggiato dall’amico barista Eddie (l’ottimo Bobby Cannavale) che lo ascolta, e gli dà la battuta, mentre cerca invano di limitare il numero di whisky da lui ingollati, Larry si sfoga, e parla, parla… Molti i monologhi, sempre arguti, spiritosi, mai verbosi.
Parla di se: non nasconde i suoi difetti, sa di essere eccentrico, egocentrico, sessualmente incerto ( si definisce “onnisessuale“). Ce ne ha per tutti: in primis il mondo del teatro, che ormai preferisce cose più facili, che inducono al pianto o al riso e non alla riflessione. Vengono nominati Somerset Maugham, Hemingway e Shakespeare, le ragazze che impazziscono per Frank Sinatra, il mondo di fuori (siamo nel ’43, c’è ancora la guerra), ”abbiamo mandato milioni di ragazzi a morire “. Oltre al barman complice a fargli da spalla c’è un altro personaggio, un soldatino in licenza che strimpella al piano tutti i classici motivi suggeritigli da Hart (il clima richiama, pensiamo volutamente, la mitica scena del film Casablanca) Ma nulla vale; lui è “triste, solitario e final”, capisce che il suo tempo è finito. La scena si anima un po’ quando, reduci dalla trionfale serata di Oklahoma, fanno il loro ingresso da Sardi’s Rodgers e Hammersmith. Lui si alza, fa i complimenti: il musicista, condiscendente e forse mosso a pietà, gli promette per il futuro una qualche forma di collaborazione.
Fa parte della compagnia anche la sua protegee e sogno d’amore impossibile Elizabeth (Margaret’s Qualley): lui vecchio e consapevole, lei giovane e radiosa. E il lungo dialogo tra i due nel retro del bar è senz’altro il momento più alto e più divertente del film. Con lui che vorrebbe ma non osa dichiarare il suo amore e lei che, consapevole o no, gli racconta con dovizia di particolari gli sfortunati (e a volte buffi) incontri con uomini giovani e belli, concludendo con la frase che nessun uomo vorrebbe sentirsi dire da una donna: “Yes i love you but not in that way!”. Poi la comitiva se ne va altrove a festeggiare, lui rimane solo nel bar.
Clamorosa l’interpretazione di Ethan Hawke, attore feticcio di Linklater da 3o anni, dai tempi del primo Sunset.
In conclusione un film straordinario, che avrebbe meritato ben altro che la striminzita statuetta al migliore attore non protagonista.
Giovanni Martini – MCmagazine 101