Youth – Homecoming

Wang Bing

Con l’avvicinarsi delle vacanze di Capodanno i laboratori tessili di Zhili sono quasi deserti. I pochi dipendenti rimasti sono in disperata attesa dello stipendio per pagarsi il viaggio di ritorno a casa. Dalle rive del fiume Yangtze alle montagne dello Yunnan, tutti festeggeranno nelle proprie città natali e celebreranno i rituali di prosperità con la famiglia. Per Shi Wei questa è anche l’opportunità di sposarsi, come per Fang Lingping. Il marito, ex tecnico informatico, dovrà seguirla a Zhili dopo la cerimonia. Imparare è difficile, ma ciò non ostacola l’avvento di una nuova generazione di lavoratori.

Francia/Lussemburgo/Paesi Bassi 2024 (152′)

VENEZIA – La prima immagine ufficiale della storia del cinema è quella di una fabbrica. In quel 1985 che cambiò per sempre la storia dell’arte e introdusse il pubblico a quella che di lì a poco sarebbe divenuta la società dello spettacolo novecentesca, la macchina da presa fu puntata da Auguste e Louis Lumière sul numero 25 di rue Saint Victor, immortalando a imperitura memoria il gruppo di operai intenti a sciamare fuori dai cancelli dell’officina al termine dell’orario di lavoro. Il film – della durata di quarantacinque secondi – è conosciuto come L’uscita dalle officine Lumière (La Sortie Des Usines Lumière, 1985), ma da quel giorno di fine Ottocento il cinema sembrò disinteressarsi delle fabbriche, che non furono più vere protagoniste del mondo di celluloide se non sporadicamente, principalmente per il tramite delle incursioni della macchina da presa di Jean-Luc Godard dalla metà degli anni Sessanta in poi – da Un Film Comme Les Autres (1968) sino al memorabile frammento industriale di Nouvelle Vague (1990).. 

    Oggi, riallacciandosi a una tradizione vecchia quanto il cinema, la poderosa trilogia di Wang Bing, che qui si chiude col superbo capitolo Youth: Homecoming, torna a riprendere le vituperate fabbriche, a introdursi negli stipati e fatiscenti laboratori tessili che sorgono a Zhili, nei dintorni di Shanghai, dove decine di giovani attendono con modeste speranze di ricevere la paga dovuta – una paga prevedibilmente insufficiente, prevedibilmente ribassata – per poter rientrare presso i famigliari in occasione del Capodanno cinese. Al telefono un giovane operaio si lamenta: sono mesi che non vede la paga e deve badare al sostentamento dei suoi cari. Non corre buon sangue tra lavoratori e padroni, frustrati e insoddisfatti i primi, indifferenti e sospettosi i secondi; le consuete dinamiche degli sfruttati e degli sfruttatori trovano nel contesto della Cina contemporanea una dolente esemplificazione. Al di là della propaganda, del presunto avvenire radioso, che la voce unica del Partito proclama in tono sussiegoso, la macchina da presa di Wang Bing esplora gli angoli del paese, i luoghi più lontani dagli indici di benessere, laddove di questo benessere annunciato si paga il fio, laddove la polvere della sopraffazione si annida. E quando a tarda notte l’arrivo di frutta per gli operai in apparente sostentamento del loro lavoro, si svela come bieco pretesto (di cui subito essi si avvedono) per sorvegliarli, ci sovviene un motto godardiano: Crepa padrone, tutto va bene. Eppure, come sempre in Wang Bing, il focus non è la critica sociale, il gesto politico, ma la messa in scena dell’umano, in tutta la sua inesauribile ricchezza. Ed ecco che di quei ragazzi e di quelle ragazze che passano e sostano davanti alla macchina da presa non solo deploriamo le miserevoli condizioni di lavoro, ma condividiamo le loro vite, trascorse per lo più ammassati in casermoni tra schermaglie amorose, indolenti sessioni di scrolling sugli smartphone, piccoli scherzi e battute canzonatorie. Sebbene certamente indispettiti da condizioni di lavoro che riconoscono come inique, ciò che più si afferma alla nostra memoria di spettatori è la vitalità irriducibile di quei giovani, il loro profondo e angosciante desiderio di vita al di là delle macchine tessili.

Contrariamente a quanto avveniva in Spring, primo capitolo della trilogia e forse quello più decisamente improntato alla rappresentazione del lavoro in fabbrica, Homecoming si incunea in quello spazio libero che interrompe il “glorioso” ciclo produttivo e consente agli operai di tirare il fiato, tornare a casa, celebrare festività e cerimonie. Wang Bing li insegue fin dentro le case dei loro cari, quasi a saggiare la consistenza di quelle ombre caravaggesche che si aprono negli interni, di quei pavimenti in terra battuta di cui si riesce quasi a sentire l’odore. Per non dire della stupenda resa dei paesaggi innevati, in cui le sagome nere degli alberi si stagliano come le cortecce dei “Cacciatori nella neve” di Bruegel. Lavorando prevalentemente su una tavolozza dai colori spenti, l’immagine di Wang Bing accede ancora una volta a un grado di plasticità che ci precipita d’un fiato nel mezzo degli ambienti, spesso organizzati, specie se in interni, sulle linee di fuga di un grandangolo – si veda l’eccellente scena nel treno che riporta a casa i lavoratori, quando un operaio racconta la storia di un collega giovanissimo che, per un colpo di sonno, finì risucchiato dalle macchine. Il lavoro sembra assorbire ogni svolta delle vite di questi ragazzi; anche quando non lo praticano, ne parlano, ne ridono, vi imprecano contro. Esso li avvolge come un panno umido, di cui non riescono a liberarsi.

Dal 2016 al 2019 Wang Bing ha inseguito i suoi personaggi nel corso di vari Capodanni, taluni consumati in sperdute zone rurali, altri in province più marcatamente borghesi, senza che tra le speranze e i bisogni degli individui si segnalassero significative differenze. Grazie al suo occhio immersivo siamo costantemente in mezzo alle loro vite, una presenza concreta, che non manca, come di consueto, di attirare sguardi che il regista non fa nulla per scansare. Anzi, durante un’ammissione molto personale di una ragazza separatasi un momento dai parenti, interviene direttamente a parlare con lei, a significare ulteriormente il suo bisogno di comunione con le vite degli altri. Di quei personaggi che si muovono sullo schermo – e di cui ricorderemo a lungo le piccole litigate, le frecciatine lasciate cadere tra un brandello di stoffa e l’altro, le figure di giovani sorridenti e abbracciati sullo sfondo di muri screpolati – Wang Bing tiene a farci conoscere i nomi, i gradi di parentela, tiene a che il suo e il loro lavoro sia anzitutto una testimonianza dell’irriducibile umanità che si muove oltre le facciate dei casermoni e delle cucitrici.

Matteo Pernini MCmagazine 96

Lascia un commento