Youth – Hard Times

Wang Bing

Storie individuali e collettive nei laboratori tessili di Zhili, sempre più drammatiche con il passare delle stagioni. Dall’alto di un passaggio, gli operai guardano il loro capo picchiare un fornitore. In un altro laboratorio, il capo scappa con tutti i soldi. Gli operai sono soli, derubati del frutto del loro lavoro. Dopo dure trattative, tornano a casa per festeggiare il nuovo anno.

Qingchun (Ku)
Francia/Lussemburgo/Olanda 2024

LOCARNOIl regista cinese Wang Bing, già vincitore del Pardo d’Oro al Locarno film festival del 2017 con Mrs. Fang, porta quest’anno in Europa la sua fluviale trilogia Youth, la cui prima parte, Spring, ha debuttato a Cannes, la seconda, Hard Times, è ora in gara a Locarno, mentre la terza, Home Coming, sarà in concorso alla mostra del cinema di Venezia.

    Documentarista affermato, autore di opere su temi come quello dei profughi, delle condizioni di vita in un manicomio all’epoca di Mao, e di altre situazioni drammatiche, il regista si focalizza questa volta sul fenomeno degli “sweat shops” cinesi. Siamo a Zhili, una cittadina a 150 chilometri da Shanghai, dove si concentrano 14.000 piccole industrie d’abbigliamento per l’infanzia e dove convergono ogni anno decine di migliaia di giovani provenienti dalle più profonde e lontane zone rurali della Cina, in cerca di un lavoro qualsiasi, anche a carattere stagionale. In cinque anni di lavoro e 2600 metri di girato, il regista ci catapulta in un universo che ha i tratti dell’incredibile. Le condizioni di vita e di lavoro nella miriade di fabbrichette di Zhili sono a dir poco terribili: si lavora praticamente solo a cottimo, con turni fino a 11 ore. Lo spettatore è letteralmente invaso dai rumori emessi dalle macchine da cucire, spesso vecchie e malfunzionanti. I dialoghi scarsi, la continua ripetizione di cifre, prezzi, quantità contribuiscono a una pesante atmosfera di oppressione e sfruttamento. Gli operai, tutti giovanissimi fra i diciotto e i vent’anni, lavorano a velocità furiosa, magari fumando o parlando con il vicino, per raggiungere lo standard di 500 capi confezionati al giorno. Il padrone, oltre a costringerli a ritmi impossibili da sostenere, fornisce loro un letto sgangherato nel retrobottega. Il regista ci fa conoscere decine di persone, che non sono veri e propri personaggi, ma presenze che ritornano ossessivamente. Non c’è voce fuori campo bensì secche e asciutte didascalie che forniscono di ciascuno nome, città o regione di provenienza, eventuali rapporti di parentela con altri lavoratori.

La macchina da presa rigorosamente a mano di Wang Bing li pedina nei loro cubicoli, registrando scherzi, amori, litigi, ingenui sogni e progetti per l’avvenire. Anche i padroni, se così si possono chiamare, si muovono in un orizzonte di precarietà, non sanno se arriverà un ordine, se riusciranno a soddisfarlo, se verranno pagati. Tra libri-paga smarriti, padroni che si danno alla fuga con i guadagni, si tengono allucinanti riunioni tra gli operai che chiedono 10 centesimi in più a capo di abbigliamento e i datori di lavoro che ribadiscono l’impossibilità di concedere qualsiasi aumento. La cittadina di Zhili, infine, sembra reduce da un bombardamento: edifici cadenti tutti uguali, sporcizia e detriti ovunque, poche altre attività commerciali, soprattutto tese a soddisfare le modeste necessità degli operai. Solo nel finale si accenna a quello che sarà l’argomento della terza parte della trilogia, Home Coming, il ritorno a casa per le feste del Capodanno cinese. Va da sé che non è previsto nessun tipo di pensione o indennità per gli operai che, finita la stagione, tornano là da dove sono venuti con un piccolo gruzzolo in contanti, e già si intuisce che non sarà per loro un momento felice: viaggi estenuanti di 1000-2000 chilometri su autobus fatiscenti e sovraffollati, mentre ciò che li attende nella casa tanto agognata durante i lunghi mesi di solo lavoro è ancora una volta squallore e miseria: abitazioni più simili a catapecchie, col pavimento in terra battuta, mancanza assoluta di igiene.

Unica nota di colore i numerosi altarini delle divinità. Siamo ben lontani dall’economia pianificata ma comunque evoluta che pensiamo domini in un Paese comunista come la Cina. Ci troviamo invece di fronte alla realtà di una Cina prima della rivoluzione maoista, che pensavamo non esistesse più dopo il boom economico degli ultimi cinquant’anni e le rutilanti immagini che ci giungono da Shanghai e da Pechino, ma che è ancora, probabilmente, la base, l’humus concreto in cui affondano le radici l’economia e la società cinesi. Il film è talvolta ripetitivo e con le sue tre ore e cinquanta minuti di proiezione mette a dura prova la pazienza dello spettatore, ma lo fa in modo molto diverso da altri autori orientali di film di lunga durata. Qui non ci sono apparizioni, sogni, metafore, fumisterie; qui tutto è reale, anche troppo, e alla fine ti conquista e ti resta dentro come un macigno.

Giovanni Martini MCmagazine 96

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