Nat fa la traduttrice e ogni giorno si trova a tradurre le storie tragiche e terribili delle donne immigrate. Stressata, molla tutto e va ad abitare a La Escapa, un paesino della Spagna rurale. La casa è malconcia e fa, letteralmente, acqua da tutte le parti. Il padrone di casa è aggressivo, il vicinato sospettoso, i maschi, in generale, corteggiatori e predatori. Come Andreas, il vicino grande e grosso che si offre di ripararle il tetto. In cambio di qualcosa. Nat, in compagnia di una cagna semirandagia, resiste all’ambiente ed entra nel gioco di una passione ossessiva.
Spagna 2023 (128′)
La richiestissima attrice spagnola Laia Costa torna nel microcosmo rurale dopo averlo visitato in The Enchanted (Elena Trapé) grazie a Un amor, l’ultimo film di Isabel Coixet: interprete e regista riuniscono le forze quattro anni dopo aver collaborato in Foodie Love. Curiosamente, entrambe le opere hanno in comune la parola “amore” nel titolo, ma le coincidenze non si fermano qui. Infatti, se nella colorata, agile e affettata serie HBO la gioia di mangiare (e di amare) era il carburante dei suoi contenuti, in Un amor un sapore agrodolce e amaro (zero romanticismo) permea il tutto, essendo, bisogna ammetterlo, abbastanza fedele allo spirito graffiante dell’omonimo libro da cui è tratto, firmato da Sara Mesa. La trama del film introduce Nat (interpretata da Costa) che, senza spiegazioni, si trasferisce in una casa sgangherata e umida in un villaggio chiamato La Escapa, situato ai piedi di una montagna rocciosa e minacciosa. Il proprietario della casa la tratta con poco rispetto, i vicini la guardano con una certa diffidenza e lei trova qualcosa che assomiglia all’affetto solo in un cane che non piace a nessuno e in un ragazzo straniero, grande e arcigno come un orso, che si chiama Il Tedesco (interpretato da Hovik Keuchkerian). Il detto popolare “Piccola città, grande inferno” diventa un peso schiacciante per Nat, che sopporta i danni collaterali del suo lavoro: quello di traduttrice delle dichiarazioni dei rifugiati politici che chiedono asilo in Europa, ascoltando ogni giorno autentiche atrocità commesse dagli esseri umani. È quindi un personaggio sfuggente, diffidente, sofferente, grigio, con un’aria triste sul volto. È difficile entrare in empatia con lei e con i suoi silenzi, e a volte è difficile capire cosa fa e perché lo fa… fino a quando un finale liberatorio chiude con vigore e dà un senso a ciò che abbiamo visto fino a quel momento. Qui Coixet si è presa la libertà di modificare l’originale letterario, dandogli una dimensione più coraggiosa e una conclusione riparatrice a una storia ruvida al punto da risultare dura, scomoda e allo stesso tempo straniante per lo spettatore. Perché sia l’autrice del libro che la regista della sua trasposizione cinematografica ritraggono senza concessioni in Un amor come la società possa essere tanto opprimente da cercare di trascinare con le sue dinamiche ipocrite chi non vi si adatta, come accade nel lungometraggio a Laia Costa, che in quel villaggio si sente fuori posto, incompresa e molto sola. Questo fino a quando non ne può più, e a quel punto finirà per sputare tutta la sua rabbia repressa, come un cane che è stato picchiato ma ha ancora abbastanza forza per mordere i suoi abusatori. E il finale alternativo, diverso da quello dell’omonimo romanzo di Sara Mesa da cui è tratto, salva il film di Isabel Coixet dal rischio di diventare un antipatico condensato di asprezza e grigiore
Alfonso Rivera – cineuropa.org
I particolari di una casa che cade a pezzi, del sorriso di un vicino che si sente artista e cerca compagnia, dell’espressione tirata di una moglie che tiene in piedi una coppia borghese che viene lì solo per il weekend, la coazione a ripetere quasi pavloviana di un’intera comunità che non riguarda solo ciò che accade, ma persino ogni singolo gesto. Isabel Coixet, con pazienza, ci mette quasi un’ora per costruire l’affresco scarno di una provincia perduta, diroccata, di un pueblo di poche case, troppo lontane per definirsi comunità solidale ma abbastanza vicine per sapere ogni dettaglio della vita altrui. Se Nat si è rifugiata lì per scappare dall’orrore altrui, per non esserne invasa, si ritrova colonizzata dalle attenzioni morbose di maschi inselvatichiti e manipolatori, tossici per mancanza di ossigeno emotivo, da uomini e donne incapaci di tendere una mano all’altro, automi dell’anaffettività, stanchi interpreti in un teatro cadente.Un padrone di casa arido e violento, un vicino troppo gentile, un muratore-contadino che è temuto da tutti perché, senza che loro l’abbiano mai davvero capito, ha dominato quell’ecosistema fingendosi semplice e divenendo manipolatore (in questo senso è frastornante e bravissima Ingrid Garcìa-Jonsson nel ritrarre quel sistema malato con una sola frase, con un solo sorriso amaro, confermando che piccoli ruoli non esistono se gli attori sono grandi). Laia Costa incarna un animo puro e ferito, una donna spezzata, che porta la sua malinconia borghese in un territorio in cui ormai non cresce più nulla, a partire dalle emozioni vere. Tutto è un baratto e le glielo fa capire proprio “il tedesco” che le proporrà con finta ingenuità lo scambio più inaccettabile che lei poi rivestirà d’amore, solo perché ne ha bisogno. È bravissima nell’aggirarsi in questo microcosmo claustrofobico esibendo la sua fragilità, forzando un adattamento disperato all’ambiente, ostinandosi a capire gli altri che la respingono. Dall’altra parte il tedesco è Hovik Keuchkerian, una montagna d’uomo, essenziale nelle sue necessità come nella sua visione della vita, capace in ogni istante di bilanciare i pro e i contro di un lavoro, di un ricordo, di una relazione, di uno sguardo. Un predatore freddo, un serpente intelligentissimo, impersonato da un attore fenomenale nel vestire questa montagna di un’espressione fissa (anzi due: con occhiali e senza) per poi improvvisamente scoprire il suo cinismo senza sensi di colpa, così come una fragilità sorprendente che diventa immediatamente (pre)giudizio feroce. Isabel Coixet come sempre sa raccontare l’amore attraverso protagoniste uniche perché capaci di rimanere se stesse anche nell’0rrore, che sia eccezionale o quotidiano, di amare e conservare se stesse anche quando tutti gli altri e le altre si perderebbero, con ostinazione e coraggio kiplinghiani.
La poesia di Rudyard Kipling, If, declinata al maschile, con Coixet assume un senso al femminile, nel caos e nella ferocia le sue donne sanno resistere alle lusinghe del cedere al conformismo altrui o semplicemente al più forte. Ecco perché la danza liberatoria di Laia Costa è meravigliosa, animalesca, struggente, perché a contatto con la natura (e nel ritorno reale o immaginato, chissà, dell’unico affetto di quell’esperienza devastante, torturato come lei ma rimasto integro) ritrova se stessa proprio a un passo dal precipitare nell’abisso. Laia Costa è un’attrice come raramente se ne vedono e ricorda, in questo, la Valentina Lodovini de La giusta distanza di Carlo Mazzacurati: si intona agli esseri umani e all’ambiente senza farsene contagiare, vibra di ogni emozione, di ogni intemperie, anche metereologica, a ogni sguardo, pur rimanendo misuratissima nell’esprimere tutto ciò, come l’attrice italiana riusciva, per esempio, nel viaggio sulla chiatta nel film suddetto. Ecco perché, ad esempio, nelle scene di sesso, ti scuote profondamente Laia Costa. Perché scevra di ogni enfasi, ti porta spudoratamente dentro di lei, non c’è quasi filtro tra lo spettatore e il dolore, il piacere, la rabbia, il respiro del suo personaggio. Nat siamo noi, tutte le volte che abbiamo avuto paura e abbiamo provato a nasconderci in un gruppo, in una comunità e in tutte le sue tossicità per divenire vittime complici. Nat siamo noi quando ci siamo ripresi noi stessi, quando abbiamo pianto e poi reagito contro chi era in cima alla piramide di questo ecosistema malato, quando abbiamo scelto noi stessi vedendo lo squallore di chi continuava ad avere paura. Un amor, in fondo, è innanzitutto quello che dobbiamo provare per noi stessi.
Boris Sollazzo – hollywwodreporter.it