The Room Next Door

Pedro Almodóvar

Ingrid e Martha erano care amiche da giovani, quando lavoravano per la stessa rivista. Ingrid è poi diventata una scrittrice di romanzi semiautobiografici mentre Martha è una reporter di guerra e, come spesso accade nella vita, si sono perse di vista. Non si sentono ormai da anni quando si rivedono in una circostanza estrema ma stranamente dolce..

Spagna (107′)
VENEZIA 81° – Leone d’Oro

VENEZIA – All’apice di un percorso artistico durato quasi mezzo secolo (43 film, ma senza aver mai vinto un festival maggiore) Pedro Almodóvar porta in concorso a Venezia il suo primo lungometraggio in lingua inglese The Room Next Door, liberamente tratto dal romanzo What are we going through della scrittrice americana Sigrid Nunez.

    Allontanatosi presto dal mondo divertente e surreale della movida madrilèna anni ‘80 di cui era stato il cantore, concentratosi poi via via in film di grande successo sui temi del dolore, dell’essere madre e figlia e sorella (le sue protagoniste sono ad ogni modo quasi sempre donne) fino alla decadenza fisica di Amor y gloria o all’accenno alla tragedia franchista di Madrés paralelas, il regista spagnolo approda qui, attraverso quasi di un processo di scarnificazione autoriale e morale al tema principe della esistenza umana: la morte, e il suo corollario, l’eutanasia, di cui è evidentemente sostenitore. E lo fa con una accuratezza chirurgica, eliminando (quasi) tutto il superfluo e concentrandosi sulle parole e gli atti delle due protagoniste; quella che al grande passo è prossima e l’altra, l’amica recentemente ritrovata che, di fronte al rifiuto di tutte le altre, assume il fardello di starle vicino…

Siamo a New York, Marta (Tilda Swindon) è una ex reporter di guerra. Vedova di un soldato tornato distrutto dal Vietnam e poi suicidatosi, una unica figlia che la colpevolizza e con cui non parla da decenni. Ammette di essere stata una pessima madre e di aver vissuto come un uomo. Ora, ricoverata in ospedale per un tumore all’ultimo stadio, rifiuta l’ulteriore tortura di una terapia sperimentale e, non volendo morire tra le persone e i luoghi che la hanno visto felice e decisa a scegliere lei il come e il quando chiede appunto ad Ingrid (Julianne Moore)di accompagnarla nella sua ultima avventura: affitteranno una casa in mezzo alla natura dell’Upper State New York, lontano da tutto e da tutti. Lei nel frattempo si è procurata nel dark web una capsula di veleno, e quando sarà in momento la userà. L’amica dovrà solo stare con lei di giorno e dormire appunto nella stanza accanto, a porte aperte. Quando un mattino scoprirà che quella di lei è chiusa, vorrà dire che è tutto finito, che ha messo in atto il suo piano. Ivi trasferitesi, comincia tra le due una serie di dialoghi profondi e necessari; si parte dal rifiuto della eroicizzazione del malato, secondo cui quella contro il cancro sarebbe una lotta da combattersi fino alla fine con ogni mezzo, per arrivare alla necessità sostenuta da Marta di morire «clean and dry», prima che il tuo corpo degradato venga ad umiliarti, a toglierti l’ultima dignità.

Nel frattempo la vita continua: Ingrid esce, fa la spesa, arriva a iscriversi ad una palestra, incontra di nascosto un vecchio amante di entrambe, professore universitario in panico di fronte al cambiamento climatico. Sono queste, con i loro riferimenti all’attualità le parti forse meno interessanti, ma d’altra parte necessarie perché il film non si risolvesse in un arido dialogo a due, una «conversation pièce» di tipo teatrale.Ed è anche dove Almodóvar può dare un minimo sfogo alla sua antica verve elegante e divertente (il personal trainer che non osa toccarla per paura di conseguenze legali). Altrettanto dicasi per la scelta della villa (una elegantissima costruzione nello stile di Frank Lloyd Wright) e l’uso dei consueti colori sgargianti nell’arredamento e nei vestiti.

Le due amiche intanto chiacchierano, guardano vecchi film (Buster Keaton), contemplano la bellezza, il miracolo della natura che le circonda. In questa atmosfera sospesa i giorni passano, cade la prima neve «sui vivi e sui morti» (magnifica citazione questa dai Dubliners di James Joyce). Ma un brutto mattino, la porta rossa di Marta è chiusa! Seguono altre poche scene non necessarie, come l’interrogatorio di Ingrid alla stazione di polizia da parte di un agente profondamente credente (ovviamente il suicidio non è un reato, ma aiutare a commetterlo sì) e l’arrivo inaspettato della figlia. In conclusione, un film adamantino, quasi perfetto, con due interpreti, Tilda Swinton e Julianne Moore, eccezionali, che avrebbero meritato, in coppia, la Coppa Volpi… Il premio che è arrivato al film è stato il Leone d’oro e, va detto, poche volte è stato più meritatamente attribuito.

Giovanni Martini MCmagazine 96

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