Unzen, Kyushu, Giappone, ore 15:18 del 3 giugno 1991, un flusso piroclastico – una nuvola di gas surriscaldati e particelle – discese dalla cima del vulcano, consumando tutto ciò che ha trovato sul suo cammino. Uccise all’istante Katia e Maurice Krafft, vulcanologi e cineasti dalla regione dell’Alsazia in Francia. Erano troppo vicini. Erano quasi sempre troppo vicino. Il giorno prima che morissero, Maurice disse in un’intervista: “Non ho mai paura, perché ho visto così tante eruzioni in 25 anni che, anche se morirò domani, non mi interessa”. Werner Herzog conosceva di persona la coppia e ha avuto accesso al loro intero archivio, che comprende filmati e immagini spettacolari, dedicando loro un documentario, che omaggia e celebra la loro vita e il loro lavoro.
– film edito solo in Versione Originale Sottotitolata –
GB/Svizzera 2022 (81′)
“Pura vida” dice Herzog a proposito dei viaggi e dei filmati dei Krafft. “Avrei fatto di tutto per essere lì con loro” aggiunge. Sì, perché questo nuovo capitolo dedicato ai vulcani, dopo Into the Inferno, è forse davvero il film definitivo che il regista tedesco avrebbe voluto fare e che non ha mai realizzato. Fino a oggi. Fino a questo straordinario requiem che usa il materiale d’archivio di Katia e Maurice Krafft e che Werner Herzog monta, commenta, analizza, contempla insieme agli spettatori. Un po’ come in Grizzly Man. Lì c’erano i filmati in digitale sugli orsi di Timothy Treadwell, integrati dallo stesso regista che entrava in scena con interviste e “scene” nuove. In The Fire Within dominano invece su tutto le magnifiche immagini in pellicola 16mm dei due vulcanologi, uccisi il 3 agosto 1991 dall’eruzione del Monte Uzen in Giappone. Ed è da qui che il film inizia, con la ripresa degli ultimi istanti di vita di Katia e Maurice sulla scena dell’eruzione, un tragico epilogo a cui Herzog ritorna ossessivamente in una sorta di ri-messa in scena della imago mortis che il suo cinema estremo, di vitalità e sacrificio ai confini del mondo ha da sempre sfiorato. Sono gli stessi confini del mondo continuamente toccati con sprezzo del pericolo da Katia e Maurice Krafft, la prima con il suo corpo minuto, impegnata a fare fotografie oppure a essere la modella accanto o davanti all’apocalisse, sempre al centro delle inquadrature di Maurice, il filmaker. Herzog sa di avere a che fare con sequenze e luoghi che sembrano set apocalittici provenienti dal suo miglior cinema: le eruzioni nelle isole islandesi, l’intera isola nelle Filippine annientata e filmata appena prima di essere travolta dalla lava, il monte Saint Helens nello Stato di Washington nel 1980. E poi la terribile testimonianza della tragedia in Nevado del Ruiz in Colombia, con oltre 25 mila vittime, fatta di immagini impressionanti che si alternano alle testimonianze verso le comunità distrutte, gli animali e gli uomini uccisi dalla lava.
Tutte tappe ripercorse dalla voce di Herzog e dai filmati della coppia, col passare degli anni sempre più ipnotici, lirici, ineluttabili. Sembra quasi di vedere una sorta di sequel di Fata morgana, con Herzog che racconta gli avvenimenti documentati dai Krafft, le loro avventure, persino la trasformazione visiva e qualitativa delle loro immagini, inizialmente di stampo turistico e poi gradualmente sempre più cinematografiche, assolute. “Col tempo il loro sguardo da scientifico, diventò umanista” osserva il regista e così il film oltre alla dimensione allucinatoria tipicamente herzoghiana riesce a trovare anche un suo cuore sentimentale, un’anima compassionevole e romantica nei confronti dei due protagonisti, della loro folle incoscienza e dell’eredità della loro opera. Ci sono l’amore, lo stupore e anche la malinconia per tempi e azioni che non torneranno più. E alla fine si resta attoniti e commossi di fronte a questa ennesima celebrazione dell’atto di filmare l’impossibile. Di contemplare le meraviglie e le tragedie del mondo. Di vivere fino all’ultimo la propria missione e la propria sfida alla Natura. Che altro dire? Un capolavoro.
Carlo Valeri – sentieriselvaggi.it
In The Fire Within. Requiem for Katia and Maurice Krafft Werner Herzog perfeziona una forma di racconto già sperimentata in precedenti documentari: la sua inconfondibile voce fuori campo scandisce, in inglese, il commento alle immagini nelle parti più narrative, alternando sequenze più evocative accompagnate unicamente da una potente e mai banale colonna sonora (…) Herzog, seguendo il modello di Grizzly Man (2005), non aggiunge materiale di sua produzione, limitandosi a essere voce narrante. Lascia parlare le immagini originali, girate prevalentemente in 16 mm, sottolineando con ammirazione come dai primi tentativi amatoriali lo stile di Maurice Krafft ‒ è lui il filmmaker ‒ si sia via via evoluto verso un’estetica consapevole, meno attenta forse al commento scientifico del vulcanologo, ma più aperta alla sensibilità registica e all’interesse, anche antropologico, per i luoghi e le persone in cui e con cui si trovava a operare. Herzog ha potuto accedere all’intero archivio dei Krafft, che conosceva personalmente, e tramite il montaggio ha costruito un percorso visivo sempre più allucinatorio, cifra stilistica che, a partire da Fata Morgana (1971), non ha mai abbandonato nel corso della sua lunga carriera registica (si pensi anche al finale di film a soggetto come Aguirre, furore di Dio del 1972). Le immagini delle eruzioni di lava incandescente diventano pura astrazione, narrazione ipnotica, estatica, onirica e accompagnano lo spettatore verso la catastrofe finale.
L’altro elemento fondamentale per la resa drammatica è la scelta delle musiche. Herzog ci ha abituato a selezioni sempre originali, alternando la musica classica, il rock, l’elettronica, l’etnico. Fra le altre, da ricordare la sua collaborazione con Florian Fricke, tastierista e leader dei Popol Vuh, sfociata nella produzione delle musiche originali per Aguirre. Un legame molto intenso che porterà il gruppo più rappresentativo della cosiddetta Kosmische Musik a dare il proprio contributo ad alcuni dei film più conosciuti della filmografia herzoghiana come L’enigma di Kaspar Hauser (1974), Cuore di vetro (1976), Nosferatu, il principe della notte (1978) e Fitzcarraldo (1982). In The Fire Within, il regista di Monaco si affida alle note del Requiem di Fauré e, con scarti improvvisi, alle melodie messicane di Ana Gabriel o ai canti popolari senegalesi. La tensione narrativa cresce e diventa sempre più empatica nei confronti dei due avventurieri, raccontati nel rapporto di coppia e di lavoro fin dalle loro radici nell’Alsazia rurale, lei nata a Soultz-Haut-Rhin, lui nella vicina Guebwiller.
Dario Bragaglia – artribune.com