The Brutalist

La storia dell’architetto ebreo László Tóth emigrato dall’Ungheria negli Stati Uniti nel 1947. Costretto dapprima a lavorare duramente e vivere in povertà, ottiene presto un contratto che cambierà il corso dei successivi trent’anni della sua vita…

Gran Bretagna (215′)

VENEZIA – Nello straordinario piano sequenza iniziale la macchina da presa con movimenti concitati e inquadrature sghembe insegue il volto iconico di Adrien Brody, fantasma polanskiano, che riprende vita da dove Il pianista l’aveva lasciato all’uscita dal campo di concentramento, mentre cerca di farsi strada tra una folla di immigrati nell’oscurità e nel caos di urla e voci di provenienze diverse. La sensazione claustrofobica si interrompe con l’apparizione della Statua della Libertà rovesciata, rivelazione allucinatoria di un incubo che non è ancora finito.

    Il talentuoso regista Brady Corbet ci ha già fornito in questo modo le coordinate per la lettura del suo film: la sopravvivenza di un uomo, un artista, all’interno di un lager nazista in Polanski, la possibilità di sopravvivenza di un uomo, un artista, nel dopo guerra e in quello che rappresenta su tutti il “mondo nuovo”, dalle mille possibilità in The Brutalist. A Corbet interessa l’esperienza americana e per denunciarne le storture e le finte promesse, assieme alla sua compagna e cosceneggiatrice Mona Fastvold, realizza il “finto” biopic di Lazlo Toth, un architetto ebreo ungherese fuggito negli Stati Uniti dai campi di sterminio.

Il film inizia alla fine degli anni ’40 con l’arrivo a New York e il soggiorno turbolento e in povertà a Philadelphia, fino all’incontro con il miliardario Van Buren (Guy Pierce), che, dopo un iniziale rifiuto, si innamora della sua opera e ingaggia con Toth un rapporto ambiguo in cui convivono ammirazione intellettuale e desiderio di sopraffazione, controllo economico e abbandono. Passato alla regia dopo le importanti esperienze come attore (ha lavorato con Araki, Haneke, Von Trier, Assayas…), Brady Corbet, al suo terzo film dopo L’infanzia di un capo e Vox Lux, realizza un’opera (nel vero senso della parola) ambiziosa e di ampio respiro, strutturata in tre lunghi atti più un ouverture e un epilogo, girata in pellicola 70mm Vistavision, per rimandare alle visioni in sala di quel tempo storico a cui la vicenda si riferisce, e con un intervallo di 15 minuti diegetico, che interrompe le 3 ore e 30′ di durata del film.

Durata giustificata dall’idea di cinema di Corbet, dalla sua ricerca della grandiosità, dal suo bisogno di dialogare con la grandezza del cinema classico e con le follie produttive degli anni Settanta. Un’ambizione che appartiene anche al suo personaggio e alla sua idea di architettura: la libreria costruita per Van Buren, il successivo grandioso progetto per un memoriale, mai terminato, la cava dei marmi di Carrara: tutto è smisurato, perchè segnato da una necessità che è anche – come si chiarirà nel finale – personale, politica, storica. Erede della Bauhaus, Toth aderisce alla corrente “brutalista” e nell’erigere quel suo gigante di acciaio e cemento armato, per lasciare un segno “pesante” e indelebile sul suolo americano, sacrifica se stesso, il suo rapporto con la moglie Erzsebet (Felicity Jones) e i pochi amici. “Brutalista” si può anche definire la poetica di Corbet, capace di riempire lo schermo sovrapponendo simbolismi, metafore, inquadrature sorprendenti, illuminazioni stranianti e ridondanze accompagnate dalla martellante colonna sonora di Daniel Blumberg.

L’incontro-scontro tra Toth e il magnate Van Buren, col suo mecenatismo di facciata, ostentato e volgare e la fine drammatica del loro rapporto suona come un atto di denuncia della società americana e del capitalismo di cui si nutre, che stritola la creatività di chi vuole imporre una sua idea libera di arte, martoriandola, stuprandola, rendendola folle, ossessiva. Ma alla fine, superato l’orrore, restano le opere, il simbolo di una rivincita sul Male, sul Potere, sul Capitale. “Non conta il viaggio ma la meta” viene detto non a caso dalla nipote di Toth nell’ultima scena di fronte a una platea che può finalmente ammirare i progetti delle opere dell’architetto ormai vecchio e in sedia a rotelle, alla Biennale di Venezia. E proprio sulle pietre, i palazzi, i monumenti, sopravvissuti alle ingiurie del tempo, della più fragile e bella delle città del mondo, si sofferma a lungo la macchina da presa nel finale del film. Un film poco hollywoodiano, una riflessione sull’arte, sull’ambizione, sul potere e le sue degenerazioni, dentro cui ritroviamo, più che La fonte meravigliosa di King Vidor, l’Orson Welles di Quarto potere, il Tarkovskji di Andrej Rubliov o il P.T. Anderson de Il petroliere. Un’opera ambiziosa indubbiamente, problematica, con qualche lieve cedimento a livello narrativo (il rapporto con la moglie), ma che, innegabilmente, lascia un segno.

Cristina Menegolli – MCmagazine 96

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