Claudine ha sempre sacrificato se stessa per amore di suo figlio, di cui si occupa da tanti anni. L’unica trasgressione sono le avventure con amanti passeggeri: uno di loro le farà tornare la voglia di vivere e cambiare il proprio futuro.
Laissez-moi – Let Me Go
Francia/Svizzera/Belgio 2023 (93′)
Laissez-moi mette in scena Claudine, una cinquantenne in apparenza senza storie (Jeanne Balibar travolge ogni scena con la sua inconfondibile presenza) che ogni martedì si reca in un albergo di montagna per frequentare degli uomini di passaggio. Si tratta di incontri sessuali fugaci e destabilizzanti nella loro sconcertante banalità che gli permettono di evadere da un quotidiano diventato soffocante. Malgrado provi un affetto sincero per il figlio (Pierre-Antoine Dubey) che soffre di un handicap psicomotorio, Claudine ha sempre messo i suoi bisogni, i suoi desideri in sordina, come se il suo ruolo di madre travolgesse e zittisse ogni forma di ribellione. Il suo quotidiano verrà però stravolto dall’incontro inaspettato con un uomo (Thomas Sarbacher) che decide di prolungare il suo soggiorno in Svizzera più del previsto. La protagonista, travolta da un vortice di emozioni a lungo represse, si lascia pericolosamente coinvolgere sognando una vita diversa nella quale sentirsi finalmente libera. Presenza al contempo affascinante e destabilizzante, sagoma sfuggente che affronta settimanalmente una lunga passeggiata in montagna indossando degli eleganti stivaletti da città, Claudine decide da sola cosa fare, quando fermarsi e quale gioco giocare con i suoi amanti di passaggio. Questo personaggio ambiguo e intrigante accoglie in sé delle tensioni sempre più difficili da tenere a bada, dei moti contradditori che la tormentano nel profondo: desiderio bruciante di affermazione personale, di una libertà che sente di meritare e accettazione silenziosa della sua condizione di madre-martire pronta a tutto pur di difendere un figlio che considera come la sua battaglia. Jeanne Balibar incarna magistralmente questi moti ambivalenti, queste contraddizioni che bruciano dentro consumando ogni slancio rivoluzionario. La quotidianità di Claudine diventa la sua corazza, la scusa ideale per non occuparsi dei suoi bisogni e desideri, per non cedere ad una libertà che anela e teme allo stesso tempo. Rappaz mette in scena una donna che non fa che interpretare dei ruoli socialmente definiti: madre coraggio, amante focosa e lavoratrice discreta, una donna che non si è mai permessa il lusso di chiedersi cosa voglia realmente e quali siano i suoi sogni. Le zone d’ombra legate ad un istinto materno che la società eteropatriarcale considera come innato, sono mostrate con coraggio, tradotte in immagini grazie a paesaggi alpini talmente mestosi da incutere timore…
Muriel Del Don – cineuropa.org
…Solo per una notte, l’opera prima di Maxime Rappaz ragiona sul peso delle imposizioni sociali implicite e di come possano pesare sull’esistenza di chi non ha avuto modo di scegliere che madre, moglie o donna essere. Claudine è una elegante cinquantenne sarta con un giovane figlio disabile, Baptiste, al quale si dedica con amorevole diligenza. Tutti i giorni della settimana si spende per prendersi cura del ragazzo ad eccezione del martedì, quando lascia l’accudimento, prende il treno e si dirige lontano, oltre la mastodontica diga della Grande-Dixence. Si reca in un hotel, sempre lo stesso, sceglie un uomo con cui conversare pochi attimi per poi invitarlo a consumare intimamente il recente incontro. Una routine ben rodata quasi chirurgica nella sua attuazione ma che, come nei classici e confortanti melò romantici, viene sconvolta dall’ingegnere idrico Michael. Affascinato dall’enigmatico incedere della signora, cercherà di valicarne la corazza gravata dal fardello dell’abnegazione. Sulle sue spalle il macigno delle responsabilità intrise di sogni inespressi e bisogni timidamente sopiti, perché nonostante l’amore incondizionato per il figlio che ha sempre naturalmente accudito, sente impellente l’ardere di un desiderio di libertà femminile ed umana. È la tenerezza e nient’altro ad essere bramata negli incontri fugaci, mai squallidi, anzi pudici e delicati, che hanno come innegabile funzione il lenire l’indifferibile necessità di essere, anche se per poche ore, garbata amante e non solo dedita genitrice. Claudine rispetta a pieno le forti connotazioni della “madre coraggio” brechtiana, indomita e risoluta nel ricoprire le vesti di entrambe le figure genitoriali, eppure a differenza della Anna Fierling dell’opera teatrale, ella vorrebbe trovare una via di uscita dalla quotidianità divenuta gabbia dorata in cui sentirsi intrappolati e allo stesso tempo alibi per non dover affrontare il giudizio altrui e quello ben più severo, ovvero il proprio. Comprensibile dualismo che vede coabitare l’assai comune senso di colpa materno, l’assistenzialismo accalorato e il fervore sovversivo del cambiamento alimentato dal percepire il diritto di riappropriarsi di una sussistenza lungamente sedata. Una lotta intestina tra il come è davvero e come dovrebbe essere secondo i canoni prescritti. Minimalista nella messa in scena, il film è vivo e riesce a porre l’accento su di un difficile processo di emancipazione. Complessità visibile sul volto algido e seducente di Jeanne Balibar, splendida nel rendere l’ambivalenza, le contraddizioni logoranti con il movimento del corpo e le accurate espressioni ermetiche nel nulla far trapelare.
Miriam Raccosta – cinematografo.it
La vicenda è ambientata nell’estate 1997, funestata, e qui non a caso, dalla scomparsa della principessa d’ Inghilterra Diana a seguito del tragico incidente d’auto. In quello stesso periodo una bella donna sui cinquant’anni frequenta, ogni martedì della settimana, un albergo di montagna presso una monumentale diga idroelettrica e ogni volta si fa indicare da un fidato cameriere i clienti con un profilo particolare: uomini soli il cui soggiorno abbia una breve scadenza. Dopo una cordiale conversazione che di solito verte sulla città di origine degli uomini incontrati, la donna propone loro, con una certa determinazione e quasi senza pudore, di salire in camera ma con lo scopo finale di non rivedersi mai più. Le città di ognuno di questi uomini, come da loro stessi descritte, divengono utile spunto per le false lettere di un ipotetico padre verso un figlio in attesa di incontrarlo. Sono le lettere che Claudine scrive sotto mentite spoglie per il figlio disabile e attraverso cui la donna fa credere al ragazzo di mantenere un contatto con un papà giramondo, che in realtà da molto tempo li ha abbandonati. Non meno fondamentale è il rituale che la donna consuma portando al figlio ritagli di giornale che raffigurano la bella principessa inglese, ritagli ricavati dai rotocalchi che trova nel bar dell’albergo, in attesa di incontrare le sue ‘prede maschili’.
Se ad inizio della vicenda possiamo interpretare la figura enigmatica di Claudine in maniera semplicistica, il film ci permette gradualmente di entrare nelle complessità di un’esistenza faticosa e complessa che caratterizza la quotidianità della protagonista. Una bella signora single con un lavoro di precisione come quello di apprezzata sarta a domicilio, ma anche madre dedita con tutta se stessa alle impegnative cure nei confronti dell’amato figlio non autosufficiente, per cui ritaglia dai giornali fotografie della principessa Diana, di cui il giovane è un fan adorante. Il melodramma di Maxime Rappaz, per certi versi un po’ retrò, per altri bizzarro e sfacciato, con le nudità ben rappresentate senza falsi pudori, si fa apprezzare come efficace ritratto femminile, sensibile e mai giudicante. La storia di una donna, anzi di una madre di mezza età, che cerca nel sesso occasionale una consolazione alla sua solitudine. La necessità bruciante di contatto fisico della donna sembra anche potersi aprire ad un rapporto più significativo quando un ingegnere idraulico tedesco dimostra un interesse che va ben oltre il primo incontro puramente fisico. Molta parte del merito della sostanziale riuscita di quest’opera va certamente alla bravura della protagonista Jeanne Balibar, abile nel trovare le giuste sfumature per rendere la sua Claudine una figura reale, o almeno plausibile, pur nella bizzarria di certe situazioni, attraverso cui il pubblico possa entrare empaticamente in connessione.
taxidrivers.it