Facendo eco a Room 666 (1982) in cui Wim Wenders interrogava i suoi colleghi sul futuro del cinema, Lubna Playoust ripropone lo stesso quesito a una nuova generazione di registi: il cinema è un linguaggio che sta per perdersi, un’arte che sta per morire? Alla domanda rispondono lo stesso Wenders, e tanti altri nomi illustri: da Cronenberg a Sorrentino, da Joachim Trier a Ruben Östlund, Alice Rohrwacher, Asghar Farhadi…
film edito solo in Versione Originale Sottotitolata
Chambre 999
Francia 2023 (85′)
Per parlare di Room 999, il nuovo film di Lubna Playoust distribuito da CG Entertainment in collaborazione con Cinema Beltrade – Barz and Hippo e presentato in anteprima al Festival di Cannes 2023, dobbiamo partire dal Camera 666. Nel 1982 Win Wenders realizza, infatti, un film che lo porta a intervistare 16 cineasti di tutto il mondo per condividere la propria idea di cinema. In quell’occasione Wenders filmò, ai margini dell’autostrada nei pressi dell’aeroporto di Parigi, un maestoso cedro del Libano di 150 anni. In viaggio verso il Festival di Cannes e preoccupato del futuro del cinema, Wenders descrisse quell’albero come il testimone della nascita del cinema stesso: disse che sarebbe sopravvissuto. Poi, dopo quella certezza, mise 16 registi in una stanza – la numero 666 – di fronte a una cinepresa, e li interrogò sulla loro di visione. Oggi, nel 2024, l’albero è stato abbattuto dopo essersi ammalato, ne resta solo un tronco che giace sul ciglio della strada. Sarebbe facile interpretare questo abbattimento come un evento simbolico sullo stato in cui il cinema versa ai giorni nostri, ma Playoust non lo fa, scegliendo anzi di girare Room 999 in una camera d’albergo sulla Croisette 40 anni dopo il film di Wenders e di chiedere a 30 cineasti la domanda che i circoli intellettuali e cinefili si pongono da un bel po’ di tempo: il cinema è un linguaggio che sta per perdersi, un’arte che sta per morire? A rispondere sono, tra gli altri, lo stesso Wim Wenders, David Cronenberg, Audrey Diwan, Joachim Trier, Asghar Farhadi, Buz Luhrmann, Paolo Sorrentino, Christian Mungiu, Pietro Marcello, Ruben Östlund, Albert Serra, Monia Chokri e Alice Rohrwacher, tutti pronti a interrogarsi sulla loro professione e, soprattutto, sullo stato di salute di quell’industria che viene ormai data per spacciata un giorno sì e l’altro anche. La cosa che più colpisce del film è sia la libertà con la quale questi grandi artisti si aprono che la differente attitudine che dimostrano nell’approcciarsi a quella domanda. Wenders stesso ragiona sul fatto che il cinema esista da 129 anni e che è molto improbabile che muoia: «Quello che chiamiamo cinema esiste solo in piccole isole felici che stanno scomparendo velocemente, ma la narrazione delle storie non morirà. Cambierà», spiega il regista incontrando il favore di David Cronenberg, che non sembra spaventato dalla minaccia di un funerale imminente.
«Non mi preoccupa la grandezza dello schermo, perché le sensazioni sono le stesse», dice Cronenberg mettendo comunque in chiaro che, indipendentemente da come andrà, lui non cambierà di certo il suo modo di fare cinema. Ottimista, a dirla tutta, sono anche Joachim Trier, curioso di esplorare le nuove strade che il cinema sta percorrendo, e Arnaud Desplechin, che pensa che il fatto che molti registi come Bergman e Allen considerassero inutili le proprie opere la dica lunga sul contributo che gli artisti continueranno a dare, forse inconsapevolmente, allo schermo. Più pessimisti sono James Gray, che in Room 999 dice che il cinema sta effettivamente per morire per fare posto alla realtà virtuale – «Ci sono ancora tanti talenti in giro, ma non so se ci sarà un pubblico per tutti questi talenti» -, ma anche Asghar Farhadi, che sembra certo che le nuove generazioni non abbiano più bisogno del cinema perché stabiliscono le relazioni in altri modi, anche se crede che comunque non scomparirà. Insieme all’ottimismo entusiasta di Buz Luhrmann e il punto di vista interessante di Olivier Assayas, convinto che l’essenza del cinema risieda nei film meno inquinati dall’industria e dagli alti budget, i punti di vista più stimolanti sono quelli di due grandi talenti italiani: il premio Oscar Paolo Sorrentino, che capisce che i produttori chiedano film di successo ma ragiona anche sul fatto che occorre esplorare tutte le strade possibili affinché quell’arte non scompaia, e Alice Rohrwacher, che dà una delle risposte più romantiche dell’intero Room 999. «Il fatto che il cinema possa morire non è una cosa negativa perché lo rende umano, più simile alla vita. Non credo, però, che sia adesso il momento di celebrare questo funerale», dice Rohrwacher, certa che in quest’epoca votata sempre di più all’individualismo abbiamo necessariamente bisogno di «riti ed esperienze collettive», «di qualcuno che ci faccia vedere ciò che vede». E non potremmo essere più d’accordo.
Mario Manca – vanityfair.it
…Tra le tante talking heads (una trentina circa, per neanche un’ora e mezza di girato) che si alternano sulla stessa poltrona serpeggia inarrestabile lo scoramento, la sfiducia, l’epicedio sussurrato, prefigurato, prossimo venturo. Ubi piattaforma, sala cessat è il mantra che si rincorre di regista in regista. Ma non sempre, tra lampi di ottimismo e dilatazioni di sguardo, qualcuno, prima di abbandonare la stanza, dunque la scena, annota che il problema, anzi il nesso causa-conseguenza è molto più grande di così. Nel caleidoscopio di opinioni, tutte variabili e non tutte memorabili, che cataloga la camera fissa di Playoust (rimangono le tende, un tavolino, una sedia, un mobile e una tv accesa simbolicamente su una piattaforma) il ragionamento sconfina e annette altre tendenze: il pubblico che si disaffeziona; la civiltà delle immagini; la società dell’algoritmo; la sala semivuota; i social media; gli steccati generazionali; i regimi e il senso politico delle immagini (di ogni immagine); l’onda lunga della rivoluzione digitale (per un Wenders catastrofista, c’è un Cronenberg aperturista); la libertà creativa; la civiltà dei consumi e l’impero delle merci. Dall’iterazione della domanda, il ragionamento si allarga a raggiera. Il cinema sconfina nella società che lo produce e lo consuma. Il ventaglio si fa ampio e articolato a seconda di esperienze e sentieri culturali di provenienza. Le posizioni, nell’incertezza di fondo, ora collimano ora si scontrano. Prevale, ma carsicamente, la coscienza di essere in un epoca di transito verso un altrove che fatica a schiudersi, come l’idea di non mettere dighe alla rivoluzione digitale, ma piuttosto la necessità trovare la barca adatta per cavalcare senza esserne travolti (…) Nella myse en abime si staglia la cinepresa come testimonianza ed estensione del dialogo per un doc nato per fare da gancio e tramite, tra il regista (l’uno che crea) e il pubblico (la moltitudine che fruisce). Per continuare a ridondare, tra sgomento paura e speranza, la domanda di fondo: il Cinema sta morendo?
Davide Maria Zazzini – cinematografo.it