Samet, insegnante in un istituto di un piccolo villaggio dell’Anatolia orientale, ha il grande desiderio di trasferirsi un giorno a Istanbul: l’uomo deve completare un ciclo di quattro anni di insegnamento in attesa di essere accettato in una scuola nella capitale, ma un evento del tutto imprevisto fa crollare le sue speranze. Lui e un suo collega vengono accusati di comportamenti inappropriati da parte di due studentesse della scuola e sarà per lui l’inizio di un incubo da cui non sarà semplice svegliarsi.
Kuru Otlar Üstüne
Turchia/Francia/Germania 2023 (197’)
CANNES 76° – Palma come miglior attrice a Merve Dizdar
Nel nuovo film di Nuri Bilge Ceylan tutti hanno perso qualcosa, più o meno definitivamente, ma ci vuole un po’ per capirlo. Il grande regista turco infatti non racconta storie. Allestisce misteri. Dandoci molti strumenti (anche emotivi) per interpretarli, ma non tutti. Il resto del lavoro spetta a noi e ognuno può trarre le sue conclusioni. Magari smarrendosi lungo la via per ritrovarsi ogni volta in un posto diverso dal previsto. Come sa chi conosce Uzak, Il regno d’inverno, C’era una volta in Anatolia, il suo film più ambizioso e più bello. Ma partiamo dalle certezze, ci sono anche quelle. Siamo in un paesino nel Nord Est dell’Anatolia, oggi, tra Siria, Armenia e Iran. Fuori tutto è bianco come la neve che copre quelle regioni molti mesi l’anno. Dentro, in fondo all’anima dei protagonisti, domina invece il grigio in tutte le sue sfumature. Il protagonista, Samet, è un professore di educazione artistica ancora quasi giovane che sembra uscito da Cechov e sogna di tornare a Istanbul. Anche se vivere quella specie d’esilio come una condanna non gli impedisce di scattare magnifiche foto ai luoghi e ai loro abitanti. Un uomo meschino o inaridito può benissimo essere un artista, l’intero film poggia su questa apparente (e crudele) contraddizione. Umanamente infatti Samet non è un modello. Pigro, opportunista, sognatore, manipolatore, ignaro di sé. È anche troppo sensibile all’infinita varietà del mondo per non lasciarsi irretire da tutto ciò che è bello, insolito, vulnerabile, in una serie di apparenti digressioni che oltre a scolpire a meraviglia quel microcosmo (siamo nelle regioni curde ma la questione è appena accennata) danno un rilievo speciale al personaggio e alle sue ambivalenze. La prima di queste ambivalenze è una sua giovanissima allieva, la più dotata, la più graziosa, la più coccolata. La seconda una affascinante collega (la superba Merve Didzar, palma per l’interpretazione a Cannes) che ha perso una gamba in una manifestazione ed è in tutto il suo opposto, tanto che Samet… Di più non diremo, basterebbe la lunga, tortuosa marcia di avvicinamento dei due personaggi, con le sue ragioni inconfessabili ma tanto più vere, a fare del film un gioiello. La forza di questo Racconto non sta però nel suo centro quanto in ciò che lo circonda, lo modella, lo rende ancora più amaro. I molti e memorabili comprimari, i paesaggi, il rapporto con un tempo eternamente sospeso e insieme inesorabile, le contorsioni morali del protagonista, che peraltro Ceylan non giudica mai, nemmeno un istante. Sono 197 minuti, e non ce n’è uno di troppo.
Fabio Ferzetti – lespresso.it
In Racconto di due stagioni, storia di Samet, un professore di storia dell’arte che lavora nella scuola media di un paesino sperduto della Turchia orientale e in attesa di trasferirsi a Istanbul vive con il collega Kenan e insieme a quest’ultimo corteggia l’insegnante Nuray, non prima di essere stato accusato di comportamento inappropriato da una studentessa, il racconto è inframmezzato dalle fotografie che il protagonista, troppo pigro per essere artista e perseguire le sue velleità, scatta nelle campagne attorno al villaggio dove vive: ritratti frontali di persone che, del centro dell’inquadratura e staccate dal paesaggio con la funzione “ritratto”, guardano verso l’obiettivo. In queste immagini Ceylan riflette sul riconoscimento del protagonista nei suoi stessi soggetti, poiché per Semat – uomo aperto di vedute ma egoista, gentile ma meschino – ogni ritratto diventa uno specchio di sé, un frammento del suo inguaribile narcisismo. Per Ceylan, che usa gli scatti fissi come momenti di pausa dalla densità dei suoi dialoghi (scritti con la moglie Ebru Ceylan e con Akin Aksu), il cinema non serve a osservare la realtà, a comprenderla nelle sue logiche pubbliche e private, storiche e sociologiche (nonostante in questo film ci sia come sempre l’ombra dello stato turco, evidente nella gestione di un potere – qui quello scolastico – autoritario e sommario, violento e invasivo). Il cinema serve a restituire la caotica dicotomia delle relazioni umane, sospese in un equilibrio fragile fra narcisismo e incontro con l’altro, pregiudizi e apertura, individualismo e responsabilità, bontà e interesse, purezza e colpa…
Roberto Manassero – cineforum.it
Il campo lungo con il paesaggio innevato. E poi stacco, verso il finale, l’estate. Si succedono le stagioni in un tempo che si è fermato in un villaggio dell’Anatolia nel nuovo film di Nuri Bilge Ceylan. Non è più lo spazio di un poliziesco di C’era una volta in Anatolia e neanche il rifugio di un hotel dove esplodono le tensioni sentimentali di coppia di Il regno d’inverno con cui il cineasta ha vinto la Palma d’oro a Cannes nel 2013. E proprio da quel film, e dal successivo L’albero dei frutti selvatici che arriva quel senso di alienazione e isolamento che ha da sempre imprigionato i suoi personaggi dentro un luogo. Si trova nella stessa situazione anche il protagonista di Racconto di due stagioni. Samet insegna arte plastica in un villaggio remoto e aspetta da anni di essere trasferito a Istanbul. Ma il tempo passa e una serie di eventi – tra cui l’accusa di avere dei comportamenti troppo intimi con i suoi studenti – gli fanno perdere ogni speranza. Nel frattempo l’incontro con la sua collega Nuray, anche attivista politica in prima linea a cui è stata amputata una gamba dopo un bombardamento, rivitalizza le sue giornate. Ma anche in quel caso non riesce a entrare in sintonia con la donna anche perché anche Kenan, con cui condivide la casa, si è invaghito di lei.
Nei piani-sequenza e nelle inquadrature fisse che dilatano i tempi d’attesa, il film di Ceylan lascia gradualmente esplodere l’insoddisfazione personale, i sogni perduti e soprattutto l’incomunicabilità. Antonioni continua ad essere un riferimento ben vivo per Ceylan ma è ulteriormente accentuato il rapporto con un luogo che è sempre uguale a se stesso, un regno d’inverno da cui non è mai più possibile uscire… Ceylan lascia tutto il tempo necessario per entrare nel film. Non forza la mano e non s’immobilizza con il rischio di ammirarsi fin troppo come nel film precedente. Per questo anche attraverso i suoi personaggi, spesso respingenti, il suo cinema riesce ad adeguarsi, anzi a scorrere parallelamente, ai tempi della vita.
Simone Emiliani – sentieriselvaggi.it