Hilarion Zabala, sergente dell’esercito in pensione, soffre di un misterioso problema olfattivo. Una consulente/psichiatra sospetta che si tratti di un caso persistente di fantosmia, un odore fantasma, probabilmente causato da un trauma, una profonda frattura psicologica. Un processo radicale raccomandato per curare il disturbo prevede che Hilarion torni ad affrontare i più oscuri abissi della sua carriera militare. Riassegnato alla remota colonia penale di Pulo, deve fare i conti con le orribili realtà̀ del luogo e con i fantasmi del suo passato.
Filippine (246′)
VENEZIA – Il film si apre con le splendide immagini in bianco e nero della foresta di mangrovie filippina, fotografata come solo Lav Diaz sa fare, riportando immediatamente lo spettatore “fedele” alla sua filmografia, all’interno di quell’ambiente che è stato protagonista di molti dei suoi film più belli (Death in the Land of Encantos, Melancholia, Norte, The End of History). La foresta, simbolo per eccellenza di ciò che resta della bellezza incontaminata del suo paese, viene però improvvisamente violata, divenendo teatro di una strage compiuta ai danni di una pacifica popolazione locale.
Scopriremo trattarsi di un ricordo del protagonista Hilarion Zabala, che, soffrendo di uno strano disturbo olfattivo di origine psicosomatica legata ai traumi del suo passato violento, su consiglio di una dottoressa, per raggiungere la guarigione, dovrà risalire alla genesi del disturbo, ripercorrendo le tappe di quel processo di disumanizzazione che lo aveva trasformato in uno strumento della repressione militare. Ed è così che il vecchio sergente si arruola nuovamente e si fa spedire nella colonia penale dell’isola di Pulo, dove dovrà confrontarsi con il regime dispotico di un ufficiale maniaco e corrotto e con le tristi vicende di Reyna, giovane ipovedente, costretta a prostituirsi dalla madre adottiva, che gestisce uno spaccio abusivo all’ingresso della colonia, simboli di una nazione corrotta, oggi come un tempo, che ha subito infiniti stupri ed abusi nella Storia.
Phantosmia è dunque un film che da un lato impone al suo protagonista di cercare di liberarsi da quell’odore nauseante che percepisce solo lui (immediato sorge l’accostamento alla psoriasi che affligge il tenente Hermes Papauran in When the waves are gone), dall’altro ragiona sulle logiche del sopruso, dell’abuso, della violenza che si annidano, oggi come nel passato, tra gli esseri umani. Come si è potuto notare nei suoi ultimi film, anche qui Diaz tende a dare centralità alla narrazione, alle motivazioni delle scelte e dell’agire, ma man mano che la vicenda si sviluppa, soprattutto dopo il trasferimento nella colonia penale, il racconto si discosta sempre più spesso dal piano della realtà per addentrarsi in una dimensione più onirica, dove con il presente si mescolano i momenti dei ricordi o della fantasia del vecchio sergente, ma ancor più quelli che appartengono alla dimensione del mito, come l’Haring Musang, il leggendario gatto selvatico a cui tutti danno la caccia ma nessuno ha visto o pause liriche come l’apparizione del poeta che declama i suoi versi. Tutto converge verso un percorso di redenzione nella parte finale, quando Hilarion cercherà di salvare tanto Reyna quanto la creatura Haring Musang, un percorso di guarigione lungo e difficile, forse impossibile, che riguarda l’anima prima del corpo.
In Phantosmia ritroviamo tante situazione del cinema di Lav Diaz, la foresta popolata da creature mitologiche, di poeti, così come altrove di eroi rivoluzionari popolari, le stimmate che segnano i corpi come reazione fisica a una degenerazione morale e soprattutto, sempre presente, la denuncia della tragicità della storia del suo travagliato paese. Nonostante l’interpretazione metaforica risulti forse troppo esplicita, il film riesce però come sempre ad incantare per quattro ore lo spettatore con il fascino delle immagini oltre che a stimolare riflessioni mai banali, partendo dalla più immediata (secondo quale diritto gli esseri umani uccidono altri esseri umani?), per arrivare a quella più profonda relativa ai condizionamenti “che influiscono sulla nascita di sistemi fascisti, autoritari, feudali e barbarici” per usare le parole del regista stesso.
Cristina Menegolli – MCmagazine 96