Paris, Texas

Wim Wenders

Ritrovato mentre vagava nel deserto solo e disidratato, il vagabondo Travis viene ricondotto a Los Angeles dal fratello Walt. Qui rincontra il figlioletto Hunter, abbandonato anni prima, e viene a sapere che sua madre, l’ex moglie Jane, dalla cui separazione non si è mai più ripreso, ogni mese deposita per il bambino una somma di denaro in una banca di Houston. Preso con sé il figlio, Travis parte alla ricerca della moglie e la trova in un peep-show del Texas, dove la donna si prostituisce. Fattosi riconoscere da Jane, chiarisce con lei le ragioni del loro amore finito e le riconsegna il piccolo Hunter, prima di ripartire ancora una volta solo…

USA 1984 (147′)
CANNES 37° – Palma d’Oro

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       Film cardine dell’intera opera di Wim Wenders, costruisce la sua grandezza, oltre che sull’innegabile capacità di un cineasta qui nel pieno della sua ispirazione, su tre elementi fondamentali. Straordinaria è l’interpretazione di Harry Dean Stanton, culmine di tutta la sua carriera, nei panni di un muto rabdomante dell’anima in fuga da un doloroso passato. Ottima è la sceneggiatura di Sam Shepard, in mirabile equilibrio tra lirismo e malinconia. Vette altissime sono raggiunte dalla colonna sonora di Ry Cooder, pietra miliare della slide guitar contaminata con influenze mariachi. Sintesi perfetta di questi contributi, Paris, Texas si delinea come racconto morale dal valore universale, che si snoda fluido e solenne nella cristallina wilderness dei grandi spazi aperti americani. Il paesaggio, come sempre in Wenders, non è solo metafora della condizione esistenziale, ma ambiente in grado di condizionarla. Tra la polvere del deserto, il protagonista della pellicola cerca di tornare nel luogo sperduto del suo passato per elaborare il dolore di una storia personale segnata dal fallimento. Road-movie profondamente ibridato con il western, commuove con la sua dolente umanità senza sottrarre nulla a un impianto estetico di grandissima suggestione. Su tutte, una sequenza si sedimenta nel cuore e nella memoria come nessun’altra nel cinema wendersiano: il filmino in super 8 mostrato a Travis sulle note struggenti della Cancion Mixteca.

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  Fino a oggi il motore delle narrazioni di Wenders è stato sì il vagabondaggio, ma soprattutto l’incontro. Il vagabondaggio torna anche in Paris, Texas, benché con uno scopo forse chimerico (annunciato sin dal titolo), e imperniato su una serie di ricongiungimenti. Si tratta di una novità e, dal punto di vista dei protagonisti, a partire dal loro regista, di una difficoltà maggiore. Il dialogo che, ad esempio, poteva instaurarsi per tentativi, trasporti improvvisi, tacite complicità fra un giornalista allo sbando e una bambina (Alice nelle città), fra due uomini che costeggiano una frontiera (Nel corso del tempo), fra un malato terminale e il gangster che lo travia (L’amico americano), fra un detective e gli sconosciuti con cui la sua indagine lo porta a confrontarsi (Hammett. Indagine a Chinatown); quel dialogo era necessariamente più libero, più facile da avviare che non quello di Paris, Texas, nel quale converge un intero romanzo familiare e che, come a volerci illustrare la fatica che comporta, presenta per una buona mezz’ora un protagonista silenzioso. Nonostante questo fardello di vita, di conflitti, di sofferenze anteriori e comuni, così pesante da portare, i personaggi di Paris, Texas si ritrovano, imparano a riconoscersi. A forza di premure, di ostinazione, di sfuriate affettuose Walt, il fratello, riesce a vincere il mutismo in cui si è rifugiato Travis. E Travis, a sua volta, vince l’ostilità che gli dimostra il figlio Hunter, vince l’amore che questi porta ai genitori adottivi (il tutto non senza dolore, e non senza il desolato soccorso dei detti genitori). Travis e Hunter, infine, partono insieme alla ricerca di Jane, e per ritrovarla dovranno sconfiggere l’impenetrabilità di una grande città, quella di uno specchio semiriflettente e i sedimenti di un tempo passato. Va da sé che questi riavvicinamenti successivi sono sconvolgenti: nel giro di un quarto d’ora, lo spettatore conquistato da Paris, Texas resta inchiodato su un crinale dove l’ampiezza del respiro non impedisce il groppo alla gola, l’affiorare delle lacrime come una pulsazione sincronizzata con il ritmo lento del film. […] Sin dalle prime inquadrature (Travis nel deserto), si afferma una cattura dello spazio che non è mai stata, a mio avviso, tanto armoniosa ed espressiva, neppure in Nel corso del tempo. E a proposito di tempo, una pienezza della durata, sottolineata dalla chitarra di Ry Cooder, fa di Paris, Texas il film più calmo, più sobrio che Wenders abbia mai diretto.

Emmanuel Carrère: La distanza dell’incontro
(Tra cinema e letteratura – a cura di Carlo Chatrian e Daniela Persico / Edizioni Bietti, Milano)

    Gli spazi infiniti del deserto americano attraversati da un vagabondo in chiaro stato confusionale: è l’inizio folgorante di Paris, Texas che gioca da subito la carta dello spaesamento e del contrasto. Wim Wenders inquadra rocce, cieli e orizzonti stabilendo una nuova geografia interiore: questi luoghi non sono più semplici sfondi ma indizi rivelatori di uno stato dell’anima. Travis (Harry Dean Stanton) li attraversa come un fantasma alla ricerca del proprio luogo d’origine, tabula rasa di memoria e linguaggio. Là dove è la nascita di tutte le cose, lì si compie anche la loro dissoluzione, in un viaggio che è principalmente dimenticarsi di sé e imparare a guardare il mondo. La fotografia di Robby Müller inonda queste terre desolate di una luce che William Faulkner avrebbe definito “fulgida, nitida, come se venisse non dall’oggi ma dall’età classica”. Travis ha lo stupore catatonico di un Ulisse che ha perso contemporaneamente Penelope e Telemaco e non ritorna a casa ma, amaramente, nel nulla che lo ha generato. La chitarra di Ry Cooder accompagna con una sottile malinconia questa disgregazione dell’unità familiare, in uno strappo del passato che il tempo non riesce a risanare. (…) Nell’ultimo confronto in cui è la voce umana a prendere il sopravvento (Jane ammetterà a capo chino “Ogni uomo ha la tua voce”), Sam Shepard (co-sceneggiatore del film insieme a Wenders e Kit Carson) propone un dialogo molto realistico, fatto di ammissioni e di accuse, di consapevolezza e perdono, di vigliaccheria ed eroismo. Proprio questa lunga confessione finale trasforma l’assenza visiva in flusso di coscienza in “vivavoce,” restituendo la drammaticità di una storia d’amore impossibile archiviata in un Super 8 amatoriale. Jane e Travis si scambiano continuamente i ruoli, dandosi le spalle, tra la luce e l’oscurità. Nastassja Kinski usa tutta la sua bravura d’attrice nella comunicazione non verbale passando da un atteggiamento offensivo ad uno di placida arrendevolezza. Nel momento in cui si riconoscono, il loro sentimento è diventato di pietra. Jane spegne la luce e può adesso vedere al di là del vetro. Travis compie l’unico gesto che possa dare un senso alle loro esistenze; poi può riprendere il suo viaggio alla cieca, lasciando che siano i luoghi a dettare la direzione. Palma d’oro a Cannes nel 1984, Paris, Texas è il film di Wenders che meglio amalgama il cinema classico americano con il Nuovo Cinema Tedesco: tra deserti aridi e intrecci di autostrade il viaggio del protagonista si trasforma in un percorso circolare ed eterno, una odissea nello spazio interiore con qualche accecante barlume di consapevolezza.

Fabio Fulfaro – sentieriselvaggi.it

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