Samia, nata a Mogadiscio durante la guerra civile, scopre di avere un talento che la rende unica: corre più veloce di tutti i suoi compagni. La corsa diventata così la sua ragione di vita e la forza che la aiuta a superare gli orrori della guerra. Con l’aiuto del suo amico Ali Samia si allena per i Giochi Olimpici di Pechino del 2008 a cui riesce a partecipare come rappresentante della Somalia nei 200mt femminili. Ma poi, minacciata per aver corso senza velo, Samia nel suo paese rischia la vita e non le resta che scappare per cercare rifugio in Europa…
Samia
Italia/Germania/Belgio 2024 (102′)
Menzione Speciale della Giuria al Tribeca Film Festival 2024
Forse ricordate questa ragazza, con la fascetta di spugna bianca in fronte, regalatale dal padre, che ha corso i 200 metri alle Olimpiadi di Pechino 2008. Il suo tempo, 32″16′, record personale, è stato l’ultimo di tutte le batterie. Ma non è questa la cosa importante: ciò che conta davvero è cosa ha dovuto fare Samia per arrivare lì. Il film di Yasemin Şamdereli racconta proprio questo: tutta la via di Samia prima di correre su quella pista rossa. Allenarsi non è stato facile in quanto somala e donna. Ma la parte più difficile, paradossalmente, è arrivata dopo essere stata alle Olimpiadi: avendo corso senza velo, si è messa contro molti connazionali. E, per continuare a inseguire il suo sogno e quindi partecipare ai Giochi Olimpici di Londra 2012, ha fatto una scelta radicale: scappare in Europa. Purtroppo, come successo a molte persone prima e dopo di lei, il suo sogno è stato interrotto bruscamente: Samia è morta 2 aprile 2012 nel Mar Mediterraneo, insieme ad altri migranti che cercavano di arrivare a Lampedusa…
Conosciamo Samia da bambina: nata a Mogadiscio, il 25 marzo 1991, la sua è una famiglia povera. La madre vende frutta. Quando vede sul giornale la foto di Mo Farah, atleta britannico di origine somala, appende in camera quel ritaglio, sognando di poter partecipare anche lei alle Olimpiadi. Da quel momento Samia corre, corre sempre: per strada, di nascosto, di notte, negli impianti sportivi chiusi. Prima partecipa a gare per dilettanti, poi, grazie anche all’incoraggiamento del pare, Yusuf, comincia ad allenarsi con i professionisti, nel centro olimpico somalo della sua città.
Nata in un paese in guerra, in cui le donne devono portare il velo (che, inutile dirlo, non è proprio l’ideale per correre), per Samia inseguire il suo sogno ha significato lottare ogni giorno. Di più, rischiare la vita ogni giorno. E infatti, purtroppo, la morte è arrivata presto. Resasi conto di aver bisogno di un allenatore in grado di renderla competitiva sul serio, la ragazza ha affrontato il terribile viaggio che fa chi vuole scappare dall’Africa per arrivare in Europa: ha attraversato Etiopia, Sudan, Libia, sfidando prima il deserto e poi l’acqua. Dalle coste della Libia ha infatti preso uno dei barconi che avrebbe dovuto portarla a Lampedusa. Ma è affogata prima di arrivare a riva. Lo stesso percorso che ha mostrato anche Matteo Garrone in Io capitano, ma che si è concluso in modo molto diverso. Una cosa che il film di Garrone e questo di Şamdereli hanno in comune è il cercare di dare dignità ai sogni dei loro protagonisti (…) Storie come quella di Samia devono essere raccontate: non soltanto perché era una ragazza con un sogno. Ma perché era una ragazza che non si è arresa. Nonostante avesse tanti motivi per farlo.
Valentina Ariete – movieplayer.it
All’origine di Non dirmi che hai paura c’è il romanzo di Giuseppe Catozzella, Premio Strega Giovani nel 2014, che ha venduto mezzo milione di copie in Italia e più di 800.000 nel mondo. Ma dietro il libro, che era scritto in prima persona proprio con l’obiettivo di restituire l’esperienza della protagonista e il suo mondo interiore, c’è la storia di Samia, nata nella Mogadiscio segnata dalla guerra civile e che sin da piccola si accorge di correre più veloce di tutti. Qui entra in gioco il cinema: nell’adattamento di Yasemin Şamdereli (che dirige in collaborazione con l’interprete Deka Mohamed Osman) la vicenda si arricchisce di un personaggio, Ali, l’amico che l’allena e la sostiene. È un elemento, certo il più rilevante, che testimonia quanto realtà e finzione (prima narrativa e poi cinematografica) non siano scompartimenti stagni ma contenitori fluidi: la sostanza di una storia non passa solo attraverso una restituzione lineare, che non di rado rischia di scoprirsi scolastica. Non dirmi che hai paura racconta la vita di Samia, che nel 2008 rappresenta la Somalia ai Giochi Olimpici di Pechino, corre senza velo, arriva ultima nella gara dei 200 metri femminili ma viene vista dal mondo che fa il tifo per lei. E ci dice quanto questa esposizione mediatica, sebbene gloriosa, non le abbia permesso di vivere serenamente: tornata in Somalia, Samia subisce le rappresaglie degli estremisti al potere perché si è fatta vedere al mondo senza velo, e allora decide di migrare verso l’Europa. C’è qualcosa di Io capitano nello sguardo delle registe, ma laddove in Garrone il “look” era un asse per sottolineare la dimensione della favola tipica del suo autore e a consegnare il viaggio verso una speranza di cambiamento, qui la fotografia di Florian Berutti appare piuttosto una scelta di superficie, forse rivolta a una fruizione il più possibile larga anche nell’ottica del pubblico adolescenziale. Una concessione estetica che rischia di edulcorare un film altrimenti durissimo, che sin dalle immagini di repertorio dell’incipit ci indica il destino tragico di una ragazza che viene prima ammirata dal mondo fuori, poi imprigionata dai suoi connazionali (quindi inibita alla vista altrui), infine sommersa e dimenticata da quell’occidente che l’aveva vista sfidare la sua nazione tormentata. Preciso nell’aderire al dolore della protagonista e nel darci contezza della diaspora somala, Non dirmi che hai paura è dignitoso e umanista, integro e giusto. Certo, qualcosa sul colonialismo italiano in Somalia, almeno nei cartelli con gli spiegoni…
Lorenzo Ciofani – cinematografo.it