Parigi, 1977. A quattro anni dal suo ritiro, Maria Callas riceve un giornalista per ripercorrere la storia della sua vita tumultuosa, tragica, bellissima. Gli ultimi giorni della vita della più grande cantante lirica del mondo, tra ricordi, rimpianti, fantasmi…
Italia/Germania (124′)
VENEZIA – Angelina è troppo Angelina – pare abbia detto Clint Eastwood quando la diresse in Changeling, intendendo che una faccia così, un personaggio (pubblico e privato) così, è sempre molto presente, troppo presente, non lo puoi separare dal personaggio. Angelina resta Angelina. L’osservazione di Eastwood, che non era una critica, ma un apprezzamento dell’attrice, fa riflettere sul motivo per cui Larraìn abbia scelto proprio la Jolie per interpretare un personaggio, un volto, che è stampato nella memoria collettiva di qualunque spettatore.
Il film si apre sul primissimo piano dell’attrice che canta, la voce è quella inconfondibile di Maria Callas, bastano pochi minuti e il patto di sospensione dell’incredulità con lo spettatore è fatto: quella che sto guardando è Angelina Jolie, ma è anche Maria Callas. Angelina resta Angelina, anche in questo film: non eccede con il trucco, si limita ad indossare gli abiti della Divina, l’accento è un po’ sporcato, la voce che canta a volte è la sua (ha studiato canto per mesi). È e rimane Diva, al pari di colei che mette in scena, perciò può permettersi di non imitarla. Sembra che in questo film, che chiude la trilogia dedicata a tre figure femminili che hanno segnato l’immaginario novecentesco, Jacqueline Kennedy (Jackie), Lady Diana (Spencer) e adesso Maria Callas, Larraìn abbia optato per una scelta più radicale, abbandonando ogni idea di verosimiglianza, per sottolineare la sua volontà di non voler replicare pedissequamente la realtà, ma di offrire chiavi di lettura individuali e collettive.
Lo spessore teorico dei film di Pablo Larraìn si è sempre manifestato nella decostruzione delle figure pubbliche (o dei dispositivi di potere) attraverso i mezzi espressivi del cinema. Il regista cileno, in quest’ultimo lavoro, arricchisce la sua folta galleria di icone novecentesche da riconfigurare in quello scarto tra immagine pubblica e fuori campo privato, quindi tra memoria condivisa e sguardo soggettivo sul mondo. Nel ricostruire l’ultima settimana di vita della Callas, morta nel 1977 a soli 53 anni nella sua casa di Parigi, dove viveva con la sola compagnia dei suoi cani, di un maggiodomo e di una domestica, Larraìn si concentra su alcuni frammenti, su periodi brevi ma intensissimi, tragici, cadenzati dalla morte, dalla fine di tutto, non solo della vita, ma anche dei sogni, delle illusioni. La morte, con il ritrovamento del corpo senza vita della Divina nel suo sfarzoso palazzo parigino, apre e chiude il film. L’attenzione ossessiva di Larraìn per il controllo totale dell’inquadratura e degli elementi di scena trasforma la casa (prigione) con il suo reticolo di stanze comunicanti, le statue classiche, i tendaggi sontuosi, le fotografie private in una sorta di spazio psichico, dove il grande pianoforte, che per l’intera durata del film viene spostato da una stanza all’altra, diventa il facile simbolo di un rimosso traumatico: l’abbandono delle scene di una delle più grandi cantanti liriche della storia. Lei vaga per la sua casa così come per le strade di Parigi alla ricerca di ricordi privati e successi pubblici, che possano narrare la sua storia, quella che ha promesso di raccontare al giornalista. “Questa autobiografia si sta scrivendo davanti ai miei occhi, attraverso le visioni, non so nemmeno se tu sei reale”, dice Maria Callas a sua sorella Iakinthi . Muovendosi tra immagini d’archivio e rigorose ricostruzioni, tra bianco e nero e colore, Larraìn mette in scena il fiume di memoria di Maria, l’adolescenza infelice quando la madre la costringeva ad esibirsi, gli amori, i fallimenti, JFK e Onassis, Jackie e Marylin, ma soprattutto le sue grandi esibizioni, La Traviata, Anna Bolena… in un flusso di ricordi senza tempo.
Se Lady D. in Spencer si definiva attraverso i suoi abiti, Maria qui si definisce attraverso quella voce che l’ha resa eterna e che non c’è più e alla quale Angelina Jolie presta il suo volto, spesso ripreso in scultorei primi piani, ma sempre capace di minimi cambiamenti che accendono forti emozioni. Il biopic nelle mani di Larraìn diventa ancora una volta un ritratto astratto delle dorate prigioni e della solitudine delle divinità, ma nello stesso tempo un omaggio all’immortalità di un simbolo, alla sua arte e al cinema stesso. E quindi ovviamente Angelina Jolie (non) è Maria Callas.
Cristina Menegolli – MCmagazine 96