Thibaut, famoso direttore d’orchestra, scopre di avere la leucemia e che l’unica speranza è trovare un donatore di midollo osseo. Cercandolo, scopre di essere stato adottato e che nel nord della Francia vive suo fratello Jimmy, addetto a una mensa scolastica e suonatore di trombone in una banda. Tutto li divide, tranne l’amore per la musica…
En fanfare
Francia 2024 (103′)
La dote principale del cinema francese – quando scritto, recitato, confezionato con impeccabile abilità come nel caso di En fanfare – è quella di saper gestire con apparente naturalezza elementi eterogenei. Emmanuel Courcol, in passato autore dell’ottimo Weekend, parte dal dramma medico, passa alla vicenda famigliare dell’incontro tra i due fratelli adottati, poi allo scontro sociale fra i due protagonisti (uno borghese, l’altro proletario, uno realizzato, l’altro fallito) e infine arriva addirittura al racconto militante e sociale, con l’accenno alla crisi economica del nord e alle proteste operaie per la chiusura delle fabbriche… A fare da trait-d’union è naturalmente la musica, anch’essa connotata in modo duplice, raffinata e orchestrale nel caso di Thibaut, immediata e grezza, da fanfara per l’appunto, in quello di Jimmy, ma capace di avvicinare i due fratelli (…) Courcol sa giocare di dettagli, crea piccole, splendide scene rivelatrici (il furto della foto della madre in una palestra, l’incontro con la figlia di Jimmy, il ruolo della sorella acquisita di Thibaut…) e dà al suo film un passo da cinema popolare che arriva con naturalezza al finale corale, in cui le opposte idee di musica rappresentate dall’orchestra e dalla banda trovano un terreno d’intesa nel ritmo travolgente del Bolero di Ravel. A quel punto gli argini dello spettatore di fronte al fiume di lacrime sono già crollati, e ci si può abbandonare al pianto liberatorio, sapendo bene che per uno spettatore a volte non c’è niente di più bello, e per un regista niente di più facile da costruire. Bastano – si fa per dire – un pugno d’attori in stato di grazia, una scrittura attenta, una regia invisibile, una musica indimenticabile.
Roberto Manassero – mymovies.it
Gli sguardi nascosti. In due momenti di L’orchestra stonata un protagonista guarda l’altro di nascosto. Uno sta dirigendo l’orchestra, l’altro suona il trombone nella sua banda. Non è la classica storia di famiglia su due fratelli che non si sono mai conosciuti. È invece la musica invece che diventa l’elemento trainante del terzo lungometraggio diretto da Emmanuel Courcol: classica, jazz, marce, la Sinfonia n. 3 di Mahler, il Bolero di Ravel che diventerà fondamentale soprattutto verso la fine del film. Non solo. Il cineasta la mette in scena attraverso i corpi dei due protagonisti, interpretati da Benjamin Lavernhe e Pierre Lottin, che diventano parte integrante di una partitura dove le dichiarate tracce da melodramma sulla malattia restano sottotraccia per quasi tutta la durata del film (…) L’orchestra stonata ha il merito di arrivare diretto e di affrontare in modo efficace la crisi economica accennando alla condizione dei lavoratori della fabbrica dove lavora Jimmy. In più è proprio la differenza di recitazione tra Lavernhe e Lottin che rende il film più autentico e che lo fa crescere alla distanza come nell’emozionante finale man mano che evolve il rapporto tra i due personaggi. Qui si sente l’eco del cinema di Lioret di cui Courcol è stato sceneggiatore, anche nei bellissimi Welcome e Tutti i nostri desideri. La malattia e la solitudine sono vengono mostrati in modo sobrio in grado di incidere in maniera forte. La vita e la sua messinscena diventano elementi coincidenti, come nel precedente film del regista, Un triomphe. Lì il teatro, qui la musica. Entrambi si portano dietro tracce di storie vere. È poi il cinema ad esaltarle senza tradirle e a darci l’illusione di prolungarle e a renderle dei passaggi che ci porteremo dietro per sempre.
Simone Emiliani- sentieri selvaggi.it
…L’ancoraggio emotivo dell’operazione affonda solo in minima parte nel terreno sempre delicato del tema ospedaliero (l’esperienza della malattia di Thibaut, molto sfumata) ed è invece affidato alla narrazione della famiglia, del che cosa significhi averne una – di sangue e non – e di quale potere curativo sia capace nel combattere sofferenze, insicurezze, solitudini (le vere malattie da curare). E si comprende allora come il ritrovarsi, poi riperdersi e infine riconoscersi tra l’esponente agiato di un élite culturale (Thibaut) e il figlio di un proletariato fiero se pure in dismissione (Jimmy) sia l’espediente per celebrare un’auspicabile fratellanza di classe, che includa intellettuali e operai lasciando fuori capitalisti e politici al soldo. Utopia amabilmente ingenua come una commedia di Loach o una favola a lieto fine di Guédiguian. Autori a cui Courcol guarda anche nella scelta di ambienti, volti e colori, con quella miscela di solare e ruspante armonia che allevia ogni tensione e disinnesca con ironia i conflitti, che pure ci sono. Ma L’orchestra stonata guarda anche Il concerto di Mihaileanu non tanto per la drammaturgia in chiave di violino (laddove il film del regista rumeno però ha un ritmo e un’efficacia drammatica superiori) ma per lo spartito umanista che suonano entrambi…
Gianluca Arnone – cinematografo.it