Souleymane è un ragazzo della Guinea, migrante senza documenti, rider che pedala determinato e consegna cibo a domicilio mentre studia per superare l’esame che gli permetterà di ottenere lo status di rifugiato. 48 ore di vita, tra clienti ingrati, sfruttatori che chiedono il pizzo, contrattempi ed inseguimenti di autobus che non lo aspettano, in attesa di quell’appuntamento presso l’Ufficio francese per la protezione dei rifugiati e degli apolidi (OFPRA) per la richiesta di asilo. Un intenso dramma con la tensione di un thriller di qualità.
L’histoire de Souleymane
Francia 2024 (93′)
CANNES 77° – Un Certain Regard: Premio della Giuria – premio miglior attore
Salutare antidoto ai troppi luoghi comuni che circondano i rider, il film di Boris Lojkine La storia di Souleymane affascina per lo stile e la profondità del suo percorso, capace di tenere insieme il realismo delle riprese, la verità degli interpreti e l’attenzione al contesto sociale e politico. E tutto questo in un film di 93 minuti, che non ha bisogno di storytelling o autofiction ma che si affida alla forza che ha il cinema di restituire il reale della realtà. Ex professore di filosofia ed ex documentarista, Lojkine decide di occuparsi dei rider durante la pandemia, quando erano le uniche persone che giravano per le città: chi sono veramente? La prima scoperta è che nella stragrande maggioranza dei casi, probabilmente nella totalità, sono immigrati senza permesso di soggiorno, che «affittano» l’impiego da un connazionale in regola con la legge, che si tiene un terzo dei ricavi. Per questo il film si apre e si chiude negli uffici dell’Ofpra (Office français de protection des réfugiés et apatrides, Ufficio francese per la protezione dei rifugiati e degli apolidi). È qui che Souleymane (Abou Sangare) è stato convocato, per verificare se i requisiti della sua domanda come rifugiato politico dalla Guinea sono veritieri e attendibili. Ed è qui, all’impiegata dell’ufficio (Nina Meurisse), che Souleymane deve raccontare la sua «storia» e convincerla che sia la verità. In mezzo, tra le due scene all’Ofpra, vediamo i due giorni che hanno preceduto la convocazione per capire chi sia davvero Souleymane. Intanto scopriamo che non è un vero rifugiato e la sua «storia» la sta imparando a memoria, imbeccato da un connazionale (Alpha Oumar Sow) che gli procura documenti finti e lo istruisce sulla «sua» vicenda, naturalmente a pagamento: quel racconto è andato bene per un suo connazionale, perché non dovrebbe andar bene anche per lui?
Poi c’è la vita da rider, le sgroppate in bicicletta per le vie di Parigi (siamo nel decimo arrondissement) filmate come mai fino a oggi. Con operatore e fonico anche loro in bicicletta per poter seguire le evoluzioni a due ruote di Souleymane, che spesso brucia i semafori e che un’auto al seguito non avrebbe potuto fare. Il risultato si vede dal ritmo che queste scene hanno e che danno l’impressione di essere davvero al fianco di chi sfreccia per le strade, trasportati dalla stessa frenesia di arrivare sempre primi, di pensare sempre alla prossima consegna. Affidando invece le pause del racconto alle scene nel dormitorio pubblico dove il protagonista trova un letto e una doccia. Intanto, tra una corsa e l’altra, innervosendosi perché il ristoratore tarda a consegnare il pacco col cibo (lo interpreta lo stesso regista), scopriamo che Souleymane ha lasciato in Africa una madre con problemi psichici e una fidanzata che ha ricevuto una proposta di matrimonio che è tentata di accettare. Mentre cerca di imparare a memoria la «storia» delle proprie tribolazioni politiche in Guinea per cercare di essere il più convincete possibile. Il colloquio chiarificatore che all’inizio del film è solo annunciato, lo vediamo nella sua interezza alla fine ed è una scena che non si dimentica perché la «storia» lascia presto il passo alla verità. Per merito della sceneggiatura, certo che il regista ha firmato con Delphine Agut, ma soprattutto per l’intensità e la verità che sa mettere nel suo personaggio Abou Sangare, un vero rider di Amiens, che per tre volte si è visto rifiutare i documenti per il soggiorno in Francia e che a Cannes è diventato una specie di simbolo contro una Francia che si sta pericolosamente avvicinando a posizioni oltranziste. Eppure il film non è mai manicheo né ideologico. Souleymane non è un personaggio «positivo», cerca anche lui di cavarsela come può, inventando storie e creandosi un’identità lontana da quella reale, così come chi incrocia non è mai solo di un colore. Tutto è sfumato e complesso, come appunto deve essere il cinema che guarda la realtà a testa alta.
Paolo Mereghetti – corriere.it
La storia di Souleymane racconta di un ragazzo della Guinea che fa il rider e prepara il decisivo colloquio per ottenere l’asilo in Francia. Un intenso dramma con la tensione di un thriller di qualità. Non c’è un attimo per respirare, ne La storia di Souleymane, che sceglie la strada del thriller pieno di tensione e di una grande credibilità visiva nel raccontare questa vicenda. Luce naturale, riprese a tutta velocità con l’operatore in bicicletta come il protagonista, in un domino di situazioni che continuano a porre piccoli e grandi ostacoli al nostro volenteroso “eroe”. Un ragazzo dal cuore d’oro, preoccupato per la madre malata e sempre più depressa, mentre vede la fidanzata tentata da un matrimonio combinato con un benestante del paese. Una scivolata e una consegna compromessa può generare una catena di imprevisti pronti a compromettere il difficile equilibrio che cerca ogni giorno, prima di finire con l’ultimo bus a tarda notte a dormire in un rifugio gestito dalla municipalità. Se il ritmo è trascinante e l’immedesimazione inevitabile è sicuramente merito di una regia attenta e priva di scivoloni retorici, con il pragmatismo unica stella polare, a far cedere definitivamente atri, ventricoli e viscere dello spettatore è lo straordinario protagonista, un non professionista trovato dopo un lungo casting come da tradizione. Abou Sangare somiglia molto al suo personaggio. Le sue esitazioni e i suoi silenzi, ma soprattutto i suoi occhi ci commuovono e conquistano, fino al momento in cui entra finalmente nell’ufficio per il colloquio finale, quello in cui ogni schermo rischia di cadere, e la sua storia diventare unica e personale, ma con una portata universale come il viaggio di speranza di milioni come lui, pronti a fuggire in cerca di un futuro migliore.
Mauro Donzelli – comingsoon.it