Joker: Folie à Deux

Todd Phillips

Joker: Folie à deux vede Arthur Fleck internato ad Arkham, in attesa di processo per i suoi crimini nelle vesti del Joker. Alle prese con la sua doppia identità Arthur non solo si imbatte nel vero amore, ma scopre anche la musica che ha sempre avuto dentro di sé.

USA 2024 (138′)

VENEZIA – Per comprendere a fondo la natura e la ventura di questo Joker: Folie à deux, nonché per indagarne con piglio critico le ragioni, è bene partire dal contesto produttivo in cui ha visto la luce. Nel 2019 Joker, di Todd Phillips, venne presentato in concorso al festival di Venezia. Salutato da alcuni come gesto avanguardista e deliziosamente impertinente dei selezionatori, l’ospitare in concorso un film supereroistico – nell’epoca del trionfo del genere – alla kermesse cinefila più attesa del mondo (assieme a quella cannense) è gesto che venne allo stesso tempo da altri preventivamente derubricato a imperdonabile cedimento ai simulacri di un cinema mediocre e massificato. La giuria accolse l’ipotesi avanguardista e premiò il film col Leone d’oro, creando un decisivo precedente e accogliendo, di fatto, l’opera di Phillips nel novero del cinema d’autore.

   In qualche modo, fu un momento di rottura e il film, che senza dubbio avrebbe comunque riscosso un notevole successo al botteghino, fregiandosi dell’insolito premio, finì con l’incuriosire anche gli spettatori più reticenti, superando il miliardo di dollari di incassi. Eppure, a ben vedere, l’operetta è mediocre. Costruita a tavolino attorno a un attore di genio, essa finisce per invischiarsi nelle più prevedibili e ordinarie soluzioni narrative, unendo il gusto per un immaginario seventies di matrice scorsesiana (ma adeguatamente depotenziato per incontrare il più largo gusto possibile) a una scrittura assai sempliciotta, che non disdegna l’infelice scorciatoia di farci simpatizzare col protagonista facendo dei comprimari delle canaglie da operetta. Cinque anni dopo, la Warner Bros. ritenta il colpaccio e porta in concorso a Venezia l’atteso sequel: Joker: Folie à deux. Le premesse, stavolta, stimolano l’immaginazione: brevi estratti rubati a un teaser truffaldino lo presentano come un tanto più interessante quanto più insolito intreccio tra genere supereroistico e musical, che vede la stella pop Lady Gaga affiancare l’eccellente Joaquin Phoenix nella parte di Harley Quinn. L’esito è una imprevedibile Caporetto. Alla prima veneziana i critici bocciano senza appello il film, che nelle settimane successive vede il giudizio suffragato dalla generalizzata insoddisfazione di un pubblico colmo di acrimonia. Che il sequel di una pellicola di culto si riveli un insuccesso non è certo sorprendente, ma l’uniformità del plauso e del biasimo non mancano di incentivare il sospetto che più che l’oggettivo valore del film a essere in gioco siano qui le aspettative degli spettatori. È, allora, bene chiarirlo fin d’ora: Joker: Folie à deux è un film problematico, incapace di sfruttare le molte idee che in esso sono convogliate, ma oltre a non meritare la mole di strali che va di giorno in giorno sempre più ricevendo, è altresì da segnalare come si tratti di un film assai più interessante e stimolante del predecessore. Proviamo, dunque, a gettare uno sguardo sulle ragioni dell’incomprensione cui sta andando incontro. L’opera si apre su un disegno animato del fumettista Sylvain Chomet – celebre autore di Appuntamento a Belville (2003) e L’illusionista (2010). Una firma che sin da subito denuncia la natura ibrida, imprendibile del film e la sua ostinata ambizione. Se nel primo capitolo il carico di presunta autorialità passava attraverso una resa tipicamente iperrealistica degli sfondi e un discorso assai sempliciotto sulle falle del neoliberismo a stelle e strisce, qui si fa didascalicamente segno cartoonesco in apertura, quasi a suggerire esplicitamente allo spettatore la sua volontà di evadere la norma, di perlustrare nuove strade per il cinema supereroistico. E questo proposito viene caparbiamente e ossessivamente perseguito per le oltre due ore successive, in cui non solo i moduli del musical vengono a interrompere la continuità del film senza mai integrarsi con esso, quasi, anzi, terremotandolo, ma l’antieroe non è più antieroe, rivoltato com’è a lasciar intendere a tutti la sua miseria umana.

In ciò il film segue rigorosamente il dettame, inseguito anche nel primo capitolo, di un universo prossimo al nostro, dal marcato realismo, in cui chi sobilli una folla di facinorosi ammazzando un disprezzabile uomo di spettacolo in diretta tv è prevedibilmente destinato a un processo per omicidio. Ecco l’intuizione di Phillips: se un sequel deve essere, sarà allora un film processuale. In questa costante, insistita mortificazione dell’epica supereroistica, il Joker di Phillips non è più l’irriducibile squilibrato dei fumetti, l’amante di Francis Bacon del film di Burton o il nichilista nolaniano tutto intento a provare i suoi teoremi amorali, ma un poveretto, un individuo forzatamente esiliato dal consorzio umano per le sue stranezze, i tic, i disagi e che l’odiosa società dello spettacolo, zeppa di luci, stacchetti, seduzioni ha indotto a credere di poter essere un eroe contro le sue aspettative, contro i suoi desideri. Arthur Fleck – in inglese: macchietta – è la vittima di una sovrastruttura che ha patrocinato il suo mutarsi in icona, secondo il modello descritto da Guy Debord nel fondamentale La Société du Spectacle (1967): “Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini”. Con l’abito viola, il volto bianco, la bocca rossa, Arthur, distorcendo irrimediabilmente la propria immagine – ossia corrompendo il proprio io – irrompe baldanzoso in tribunale, pronto a esacerbare la dimensione grottesca del processo in cui è invischiato, ma messo di fronte a un orribile specchio non si raccapezza, capitola e segna la fine del mito. Nessuna esaltazione, nessuna rivolta, nessuna fantasia o pretesa di escapismo, solo la realtà miserabile di un arresto e una condanna. Ecco, il peccato capitale di Todd Phillips: l’aver costretto Joker a gettare la maschera, l’aver destituito di concretezza l’icona, l’aver lusingato lo spettatore con eccessi di trucco, lustrini e paillettes per poi frustrarne ripetutamente le attese di trionfo.

Da qui la malevolenza del pubblico, il rifiuto di un’opera che disattende di continuo i nostri desideri, portandoci in territori che non ci aspettavamo e che ci lasciano soli e desolati, un po’ imbarazzati di noi stessi. Sono molte, dicevamo, le cose che non funzionano in questo Joker, a cominciare da una fissità esasperante dei comprimari – Harley Quinn su tutti – che non hanno vita se non per spingere Arthur a certe azioni, portarlo a un certo punto della narrazione (cattiva scrittura, si diceva, memori del primo capitolo). Eppure questo musical che non è un musical e che mortifica quasi tutte le evasioni canore dei protagonisti con una regia pedissequa (ispirata, o tale si vorrebbe, da Vincent Minnelli e Jacques Demy), è un’opera radicale, che non si accontenta della consuetudine e prova a riscrivere, nel perimetro del mainstream, le possibilità del film supereroistico, allargandone gli orizzonti e aprendolo a soluzioni inattese. Se non vi riesce del tutto è, infine, per eccesso di ambizione, non certo per mancanza di idee. Un film da 200 milioni di dollari costruito contro il pubblico. Un’opera sghemba, suicidaria, che avrebbe forse meritato un angoletto pure alla Biennale Arte di quest’anno – sezione: videoarte. Se non il nostro affetto, per tutte queste ragioni, non può non meritare almeno la nostra simpatia.

Matteo Pernini MCmagazine 96

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