Il caso Goldman

Cédric Kahn

Disperato senza fede né legge o testardo perseguitato da uno stato poliziesco e razzista? Il secondo processo a Pierre Goldman, nel 1976, divise la Francia: l’attivista di estrema sinistra andò alla sbarra per quattro rapine, una delle quali provocò due morti. Goldman negò sempre qualsiasi coinvolgimento in quest’ultimo caso. Kahn sceglie uno stile asciutto, e ragiona sulla labilità del concetto di “vero” e sul suo valore intrinsecamente politico.

Le Procès Goldman
Francia 2023 (115′)
premio CÉSAR 2024 – miglior attore

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   Non è la prima volta che Cédric Kahn per il suo cinema trae ispirazione da reali fatti di cronaca e personaggi controversi, si pensi al notevolissimo Roberto Succo (2000) o al più recente Vie sauvage (2014). Questa volta con Le procès Goldman (The Goldman Case) si concentra sul celeberrimo caso giudiziario che vide protagonista Pierre Goldman, intellettuale rivoluzionario autore di numerose rapine, accusato di aver ucciso due farmaciste in seguito ad una di queste, nel 1969, e condannato all’ergastolo nel 1974. Professatosi da subito innocente, due anni più tardi, nel giudizio di appello, Goldman venne condannato a 12 anni per le rapine ma assolto dal duplice omicidio. Uscito per buona condotta, nel 1979 venne ucciso in circostanze ancora misteriose, probabilmente – si dice – per mano di uno squadrone della morte del GAL (Grupos Antiterroristas de Liberación). Court-drama serratissimo e impreziosito dalla prova di tutti i suoi interpreti (Arieh Worthalter è l’inarrestabile Goldman, Arthur Harari il suo avvocato difensore Georges Kiejman, Stéphane Guérin-Tillié il giudice), il lavoro di Cédric Kahn – regista che difficilmente sbaglia un film – riesce attraverso la parola, lo scontro dialettico, le varie testimonianze che si alternano nel processo a raccontare il clima di un periodo storico e le tensioni che animavano alcuni dei suoi protagonisti molto meglio di altri period-drama incentrati su quei giorni. Senza uscire mai da quell’aula, così, abbiamo modo di avvicinarci alla tremenda complessità dell’uomo Goldman – ebreo di origini polacche nato da genitori che combatterono la resistenza – rivoluzionario che sposò anche la causa dei guerriglieri venezuelani all’indomani della morte di Che Guevara. “Sono innocente perché sono innocente”: deciso a licenziare il suo avvocato qualche giorno prima dell’appello (“ebreo da salotto” lo definisce in una lettera che spedisce all’assistente di questi), Goldman contesta l’iter processuale canonico, basato principalmente su testimonianze che, a suo dire, non possono in alcun modo confermare né sconfessare la sua innocenza. E il film di Kahn, che non ha bisogno di nessun orpello per arrivare dritto al cuore della questione, restituisce in modo deciso, anche violento se vogliamo, le contraddizioni di una società che in quel dibattimento vengono in superficie con forza. Dal razzismo strisciante ai metodi di indagine non propriamente ortodossi, dagli scontri ideologici ai profili psicologici dell’imputato, Le procès Goldman è grande cinema di scrittura (la sceneggiatura è firmata dallo stesso regista insieme a Nathalie Hertzberg) e di “ricostruzione” di un’epoca, ingabbiata in un’aula di tribunale e contenuta dentro l’aspect ratio 4:3, capace però di riecheggiare al di qua dello schermo con un’energia e una verità non discutibili.

Valerio Sammarco – cinematografo.it

  Se si esclude una breve sequenza introduttiva, in cui il principale avvocato difensore di Pierre Goldman (Georges Kiejman, venuto a mancare ultranovantenne lo scorso 9 maggio, fu un vero e proprio principe del foro in Francia, e difese tra gli altri anche Guy Debord e il suo editore Gérard Lebovici: nel primo volume di Correspondance, pubblicato da Gallimard nel 1978, si può leggere il polemico scambio di lettere che i tre ebbero) è sul punto di abbandonare il ruolo perché pensa che il suo assistito non abbia la benché minima fiducia in lui, Le Procès Goldman (Il caso Goldman) si svolge interamente nell’aula di tribunale – e nella cella lì accanto dove l’accusato passa i minuti e le ore in cui il processo non ha luogo – e segue alla lettera solo ed esclusivamente le testimonianze rintracciate tanto dal pubblico ministero quanto dai difendenti. In una delle primissime battute del film il giudice si rivolge a Goldman e gli chiede di rievocare la sua infanzia e adolescenza: probabilmente la stragrande maggioranza dei registi avrebbe “approfittato” di un appiglio simile per rincorrere l’idea della ricostruzione della vita del giovane Goldman, e quindi oggettivare un momento che non ha verità possibili, ma solo supposizioni. Cédric Kahn, che torna alla regia a quattro anni di distanza da Fête de famille, sceglie invece di non muoversi mai dall’aula del tribunale, di non uscire mai da quel momento, di non provare in nessun modo a forzare la mano attribuendo alle proprie immagini il grado di “verità”. Una scelta che depotenzia in modo volontario qualsiasi velleità spettacolare; chi entra nella sala in cui si svolge Il caso Goldman non deve attendersi testimoni a sorpresa, confutazioni mirabolanti, documentazioni ritrovate all’ultimo istante, arringhe al fulmicotone. Kahn rifugge qualsiasi regola (non) scritta del genere giudiziario e si muove in una direzione apertamente oppositiva(…)

Kahn si muove in forma puramente dialettica, come certifica l’arringa finale di uno dei due pubblici ministeri che vorrebbero Goldman colpevole per tutti i capi d’accusa: lì forse, più ancora che in tutte le altre dichiarazioni fatte nel corso delle quasi due ore in cui si snoda Il caso Goldman, è possibile rintracciare il senso di un’operazione cinematografica per niente banale, che squarcia il velo dell’ottusità che si cela dietro la bieca dicotomia vero/falso e cerca la stratificazione, e dunque l’umano, la sua dignità e il suo onere.

Raffaele Meale – quinlan.it

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