Roman Polanski e Ryszard Horowitz tornano in Polonia per condividere i ricordi più personali della loro infanzia e giovinezza. Camminando per le strade di Cracovia, ripercorrono il passato e ricordano quando, durante l’Olocausto, si incontrarono nel ghetto ebraico costruito dai nazisti. I passi sul suolo polacco sono le memorie della loro dura e triste giovinezza, che li ha portati a essere oggi nomi affermati del cinema e della fotografia. Due grandi artisti, una memoria che si fa carne e pensiero.
Polanski, Horowitz. The Wizards from the Ghetto
Polonia 2021 (75′)
film edito in Versione Originale Sottotitolata
Il documentario racconta del regista, che lasciò la città natale da giovanissimo per diventare un cineasta, e di Horowitz, che fuggì alla volta di New York per cominciare quella che sarebbe diventata una straordinaria carriera nel campo della fotografia. Ed emoziona ascoltare ora, dopo decenni, dalle loro voci, sui luoghi che li hanno resi quelli che sono oggi, storie drammatiche e a tratti divertenti, punteggiate dai brevi flashback, i ricordi di due bambini intraprendenti: Polanski che, fuggito dal ghetto, si nascose nella casa di una famiglia contadina ed Horowitz che fu il più piccolo a salvarsi grazie ad Oscar Schindler, l’imprenditore dichiarato “Giusto tra le Nazioni”, che lo sottrasse, come tantissimi altri ebrei, alla deportazione.
Si possono ricordare i propri incubi? Horowitz e Polanski spesso si interrogano durante il lungo cammino intrapreso nella natale Cracovia su come si possa tenere vivido nella anticamere memoria anche episodi dalla tragicità lacerante, come i rastrellamenti e le deportazioni della comunità ebraica polacca vissuti sulla propria pelle durante la Seconda Guerra Mondiale. Incubi che tormentano Polanski e il suo cinema fin dagli albori, da Il coltello nell’acqua fino a L’ufficiale e la spia, contribuendo inavvertitamente nel corso del tempo a delineare una delle personalità più complesse e claustrofobiche del Novecento. Eppure nel documentario della coppia Kudla-Romer osserviamo questo eterno esiliato in vesti tutt’altro che distaccate, anzi immerso in un clima sereno e paradossalmente informale, complice soprattutto la presenza dell’amico fraterno Ryszard Horowitz, considerato il pioniere dell’imaging digitale nella fotografia e in questo caso mediatore ed esorcista del suo complesso vissuto in Hometown. La strada dei ricordi.
Una passeggiata carica d’immagini, ricordi nostalgici ed incubi redivivi, dove Cracovia nel suo silenzio assordante conserva nei suoi palazzi, nelle sue vie, nella sua materia, i patimenti di un’intera cultura parzialmente cancellata. E il duo Horowitz-Polanski è continuamente in bilico dal farsi risucchiare dagli echi del passato, decidendo di intraprendere la personale via crucis dell’antisemitismo inizialmente con cautela, quasi con la voglia di andare oltre questo terribile incubo impossibile da esorcizzare. Con la voglia di sentirsi anche per un singolo istante delle persone comuni. Ma è proprio questa grande città dalle poche parole che in un modo o in un altro emana attraverso le pareti gli angoscianti ricordi dei due protagonisti. Perché è una sfida fin troppo ardua passare inosservati sotto quelle innocue finestre che dietro la semplice superficie conservano i volti e le voci del passato, di coloro a cui hanno voluto bene prima della grande tragedia. Affetti strappati via troppo presto dalle loro braccia. Vittime dell’odio che hanno segnato la vita sia di Horowitz che di Polanski, tuttora sentita come una pulsante ferita aperta. Infatti il duo dalla chimica eccezionale e oltre la classica formalità drammaturgica, si sorregge come due fratelli separati per lungo tempo in questa tormentata e masochista rievocazione dei ricordi, volente o nolente matrice del proprio background artistico ed emotivo, e con la speranza di trovare anche nel più terribile degli incubi uno spiraglio, anche minimo, dell’anima umana.
Lorenzo Levach – sentieriselvaggi.it
Roman Polanski e Ryszard Horowitz, circa sei anni di differenza, hanno frequentato lo stesso liceo artistico a Cracovia. Polanski (1933) è nato a Parigi, Horowitz (1939) a cracovia. Entrambe le loro famiglie sono state testimoni della costruzione del ghetto e delle deportazioni nei campi di concentramento dalla città polacca. A fine anni Cinquanta entrambi hanno lasciato la Polonia, trovando affermazione professionale rispettivamente l’uno come regista, l’altro come fotografo (o meglio photocomposer, come si dichiara) negli Stati Uniti (Polanski prima in Europa). Da allora non sono più tornati insieme nella loro città natale, dove, a oltre sessant’anni di distanza, si danno appuntamento. È l’occasione per ricordare, anche quando non si vorrebbe, per ovvi motivi. Tra i due uno squilibrio decisivo: a differenza dei suoi genitori, Polanski è scampato all’esperienza della deportazione ed è stato nascosto e affidato a famiglie diverse. Coccolato dalla sua famiglia, Horowitz invece è stato deportato piccolissimo ad Auschwitz, venendone poi salvato (uno dei più giovani) da Oskar Schindler, motivo per cui lo si può intravedere in una rapidissima apparizione in Schindler’s List di Steven Spielberg. I registi Mateus Kudla e Anna Kokoszka-Romer tallonano i due amici durante la visita ai luoghi della loro infanzia, a partire dal loro incontro in aeroporto. Rivedono la piazza principale della città, luogo massimamente evocatore di immagini, e a seguire, una sala cinematografica di quartiere, gli appartamenti in cui hanno abitato, il cimitero dove sono sepolti i cari, la scuola ebraica, la sinagoga, il muro della memoria, il ghetto. Infine – con una imprevista svolta finale che svela l’innesco di quel ritorno duro e inaudito ad anni rimossi e mai discussi insieme – il piccolo villaggio di campagna in cui Polanski fu accolto e nascosto da una famiglia di contadini, fino all’arrivo degli aerei dei liberatori americani.
Kudla e Kokoszka-Romer, che firmano anche la sceneggiatura e il montaggio del film, sanno rendersi invisibili e silenziosi, con una misura eccezionale, mentre li precedono e seguono in una serie di camminate, osservazioni e soste e registrano in presa diretta le sensazioni e le informazioni che quel ritorno provoca. Rarissimi ed estremamente rilevanti sono i momenti “in posa” davanti alla camera, nei quali stacchi rapidi evitano qualsiasi insistenza sulle loro reazioni emotiva. Anzi, una delle cose che salta più all’occhio di questo ritorno agli inferi tra giganti pari è che Polanski e Horowitz sorridono e ridono tantissimo, opponendo senso del paradosso umoristico, dell’oblìo e fatalismo ad un più prevedibile atteggiamento vittimista. Con una misura e una distanza che può appartenere solo ai testimoni diretti e ai primi oggetti dell’orrore, raccontano e mostrano ciò che è di per sé indicibile e non rappresentabile: l’odio razziale, la progressiva segregazione, la persecuzione, la schedatura, la lacerazione degli affetti, la condanna a morte mascherata da opportunità di lavoro. La narrazione procede secondo un andamento dialogico e con passaggi impercettibili la presa diretta è cucita alla voce over dell’uno che riflette sull’altro, in un confronto e rispecchiamento definitivo, senza pelle. Un’opera che si muove tra fantasmi, incubi e riti di passaggio senili, come non riuscire ad aprire la maniglia di una porta. Un lascito al mondo, con un finale luminoso ma al tempo stesso un punto di vista molto disilluso sulla natura umana. Dice Horowitz: “Le persone non imparano dalla storia. Non traggono nessuna lezione. La mancanza di rispetto per le religioni diverse, per le origini diverse o per il colore della pelle è una cosa molto crudele, che dimostra che la storia si ripete. Tutto si ripete, dopo qualche decennio, la guerra o qualche disordine. Le persone sono sempre crudeli”.
Raffaella Giancristofaro – mymovies.it
Quando il Governorato Generale nazista che gestiva la Polonia istituì nel marzo 1941 il ghetto di Cracovia Roman Polanski non aveva ancora compiuto otto anni, e Ryszard Horowitz doveva spegnere la seconda candelina. Polanski era tornato con i genitori a Cracovia nel 1936, dopo essere nato e cresciuto a Parigi: a spingere il padre e la madre a prendere una simile decisione il sentore di un antisemitismo sempre più crescente nella Francia che pure aveva appena mandato al governo il Fronte Popolare che riuniva comunisti e socialisti. La scelta dei Polanski (il vero cognome del padre era Liebling, quello della madre Katz-Przedborska: l’uomo aveva deciso di mutarlo proprio per non rendere evidenti le sue origini) purtroppo fu decisamente infausta, visto che entrambi i genitori vennero deportati in campi di concentramento e sterminio. Il padre del futuro regista sopravvisse all’esperienza a Mauthausen, mentre la madre venne uccisa ad Auschwitz. Loro figlio, grazie all’operosità del padre, riuscì a scampare alla cattura da parte delle truppe tedesche, passando di famiglia in famiglia, fino a trovare una pur relativa pace nella fattoria di una coppia cattolica, che lo accolse e lo nutrì fino alla fine del conflitto e dell’occupazione nazista. Per quanto fosse molto più piccolo l’esperienza di Horowitz fu assai peggiore, visto che nel settembre 1944, a cinque anni, venne internato ad Auschwitz e da lì riuscì a uscire perché rientrò all’interno della celeberrima “lista di Schindler” su cui si concentrò il film di Steven Spielberg del 1993. Tornare a casa dopo decenni non è mai semplice, ma può essere particolarmente doloroso quando quel luogo porta in sé i segni di un trauma inesprimibile, e forse persino impossibile da descrivere. La voce di Polanski accompagna l’inizio di Hometown – La strada dei ricordi, il documentario diretto a quattro mani da Mateusz Kudla e Anna Kokoszka-Romer che arriva in sala in Italia in concomitanza con la Giornata della Memoria, istituita per commemorare le vittime della Shoah. La voce di Polanski, si diceva, raggiunge lo spettatore con poche parole che pesano però come macigni: “Sarebbe stato meglio se tutta la mia vita fosse andata diversamente… Tutti hanno problemi ma non hanno il pesante fardello che ho dovuto portare per tutta la vita”. Lo schema proposto da Kudla e Kokoszka-Romer è abbastanza semplice, e molto lineare: prendere due artisti di fama internazionale cresciuti a Cracovia ma destinati a raggiungere il successo espatriando (entrambi raggiunsero anche gli Stati Uniti d’America, ma sviluppando con la nazione nordamericana un rapporto diametralmente opposto: reprobo Polanski agli occhi degli statunitensi, che da decenni vorrebbero poterlo estradare, mentre Horowitz ha acquisito la cittadinanza) e riportarli a casa, nella terra natia. Un luogo dove i due insieme non sono più stati dall’inizio degli anni Sessanta, un’era geologica fa, quando la Polonia era ancora parte integrante del Patto di Varsavia e rispondeva dunque agli imput sovietici – i due ricordano le canzoni dedicate a Stalin che gli venivano insegnate a scuola nei primi anni dopo la guerra. Ma c’è un dettaglio, forse ignoto ai più, che rende Hometown più prezioso. Polanski, praticamente abbandonato dal padre che aveva deciso di risposarsi, venne accolto in casa Horowitz, e per alcuni anni crebbe proprio con colui che sarebbe stato uno dei pionieri della fotografia digitale e del photocomposer. Questo particolare fa sì che una parte delle memorie dei due anziani artisti sia condivisa, e nasconda in sé un afflato fraterno, che riporta l’odore di una casa, la disposizione dei mobili, e il soffocante peso di ritrovarvisi di nuovo all’interno, ora che tutto è cambiato, e che la stragrande maggioranza degli affetti non è più in vita. Splendido in tal senso il ricordo che Polanski fa del funerale del padre, sul finire degli anni Settanta, con tanto di viaggio picaresco dalla Francia alla Polonia, attraversando la Cortina di Ferro. Un racconto in bilico tra la tragedia e la farsa, con un tocco di grottesco che riporta alla mente molto cinema di Polanski (il quale dopotutto all’occupazione nazista della Polonia ha dedicato uno dei suoi capolavori, Il pianista, incentrato sulle vicessitudini di Władysław Szpilman, uno dei più noti “Robinson di Varsavia”).
Ecco dunque che un documentario canonico, anche poco ispirato da un punto di vista strettamente cinematografico (al punto che Polanski non sa trattenersi dal riprendere i due registi per dirgli cosa avrebbe effettivamente senso inquadrare), riesce a trasformarsi in una memoria intima, delicata, ovviamente tragica eppure in grado di cogliere anche dettagli sulla contemporaneità, come ad esempio il centro di Cracovia lindo e pinto ma in realtà trasformato in un turistificio senza identità, e quindi senza vita. Ritrovatisi a Cracovia insieme, tra la memoria di un cinema che non c’è più – l’Apollo, dove Polanski ricorda di aver visto innumerevoli volte Biancaneve e i sette nani di Walt Disney –, i due fratelli non di sangue progressivamente si “allontanano” nella memoria, ognuno rintracciando le briciole della propria, cercando segni nella città e nelle campagne circostanti, e approcciandosi in maniera dissimile al trauma della deportazione, dello sterminio, dell’annullamento di un popolo (Horowitz per di più è stato cresciuto da genitori religiosi, tutto l’opposto di Polanski che era figlio di due agnostici: la sequenza in sinagoga rimarca questa distanza culturale). Hometown mostra, grazie alla generosità in scena dei due protagonisti, i mille rivoli in cui può perdersi o ritrovarsi la memoria, e il valore che essa acquisisce, oltre al peso a volte insostenibile che porta con sé. Sono Polanski e Horowitz poco per volta a prendere in mano il film, sradicandolo dai registi che diventano quasi meri esecutori di inquadrature – con un abuso, purtroppo sempre più diffuso, dei droni – e costruendoselo addosso, con i corpi anziani ma ancora in splendida forma che diventano essi stessi il simbolo di una resistenza alla barbarie, politica e culturale, e al desiderio malcelato di lasciar sopire la memoria.
Raffaele Meale – quinlan.it