Rangoon, Birmania, 1918. Edward, un funzionario dell’Impero britannico, fugge dalla fidanzata Molly il giorno del suo arrivo per il loro matrimonio. Durante il viaggio, però, il panico si trasforma in malinconia. Contemplando il vuoto della sua esistenza, il codardo Edward si chiede che fine abbia fatto Molly… Nel frattempo Molly, decisa a sposarsi e stranamente divertita dalla fuga di Edward, segue le tracce del fidanzato in un lungo grand tour asiatico.
Portogallo/Italia/Francia/Germania/Giappone/Cina 2024 (128′)
CANNES 77° – Premio per la miglior regia
Una ruota panoramica per mostrare due percorsi che finiranno per girare a vuoto. Si apre così Grand Tour, impressionante esperienza audiovisiva girata in pellicola 16mm, in cui il regista portoghese Miguel Gomes mantiene altissima l’asticella del suo cinema, richiamando sia i giochi narrativi del gigantesco progetto Le mille e una notte – Arabian Nights (2015), sia le suggestioni estetiche del bellissimo Tabu (2012). Grand Tour è una sorta di summa della sua poetica, una produzione rischiosa che usa magnificamente il bianco e nero, alternato con alcune sequenze a colori, un film in cui ci sono più voci narranti che accompagnano il “doppio” viaggio dei due protagonisti. Se è mosso anche da elementi melodrammatici, questo lungometraggio è però soprattutto un viaggio nell’anima, in cui le figure umane si perdono nella magnificenza dell’ambiente circostante, tanto brutale e selvaggio, quanto affascinante e misterioso. Miguel Gomes fa un cinema misticheggiante e politico allo stesso tempo, parlando di (de)colonizzazione all’interno di atmosfere spiritiche e valorizzate da splendidi giochi di ombre e luci. Anche gli animali hanno un ruolo fondamentale (come nei precedenti lavori del regista) in questo film, simboli di un universo senza tempo e protettori di uno spazio che rischia di essere contaminato dall’uomo. Come i due protagonisti, ci si perde in quest’opera potentissima che mescola temporalità e in cui la base narrativa è un pretesto per mostrare le varie forme a cui può tendere lo storyelling cinematografico. Con la giusta pazienza, si verrà ripagati da un’esperienza unica e potente, ricca di sequenze difficilmente dimenticabili.
longtake.it
Miguel Gomes, portoghese, classe 1972, ex critico rivelatosi regista con Tabu (2012) e una fluviale riscrittura di Le mille e una notte (2015), il “grand tour” l’ha fatto davvero. Ma non in Italia, come gli artisti e gli scrittori nel ‘700 e nell’800. È andato in Asia Orientale, ha viaggiato in condizioni anche perigliose ed è tornato con riprese eterogenee che ha poi montato all’interno di un film realizzato, per il resto, negli studi di Cinecittà: l’Italia è quindi entrata nel film, ma in modo quasi subliminale. Il risultato, Grand Tour appunto, è stato premiato a Cannes per la miglior regia ed è un film che non assomiglia quasi a nulla di ciò che normalmente si vede al cinema. Si svolge – ci informa la voce fuori campo – nel 1917 ma si vedono telefoni cellulari e automobili moderne; immagini in uno smagliante bianco e nero si alternano a inserti a colori (spettacoli di marionette, ombre cinesi, intermezzi musicali). Racconta un lungo viaggio da Mandalay (Birmania) alle foreste della Cina, un percorso mentale che è anche un inseguimento amoroso: seguiamo le peripezie di Edward, un inglese che va verso Est per sfuggire a una fidanzata che sta cercando di raggiungerlo per sposarlo, e di Molly, la donna che lo insegue vanamente. Ascoltando la voce off sembra di leggere un romanzo “coloniale” alla Kipling, ma la narrazione è astratta, senza tempo, “epica” nel senso brechtiano del termine. Grand Tour è una parabola sul colonialismo e una riflessione sulle varie forme di racconto che il cinema può utilizzare (parole, immagini, musica, montaggio). È un film impervio ma affascinante, di un fascino quasi morboso, che può stregare. Un’esperienza che ci sentiamo di consigliarvi.
Alberto Crespi – repubblica.it
Uno dei più raffinati e originali oggetti cinematografici di quest’anno, se non degli ultimi anni. Un’opera rara da vedere e rivedere più volte: film-sogno dalla grande raffinatezza e invenzione formale sulle posture e imposture coloniali, e non privo di satira, racconta la storia di un giovane uomo che fugge, Edward (Gonçalo Waddington), promesso sposo di Molly (Crista Alfaiate), una ragazza che lo insegue ai quattro angoli del mondo. “Era quasi mezzanotte quando Edward entrò nella stazione ferroviaria di Mandalay”, e la ruota del luna park che nella notte calda è piena di gente in festa, ma del cui vociare non si sente nulla, è ipnotica quanto la voce fuori campo del narratore: un monologo che si salda al rumore meccanico della ruota, a sua volta confuso con quello del treno. Un suono che un tempo cullava i viaggiatori dei treni notturni, ormai quasi scomparsi in Europa. Fin dall’inizio Grand Tour cerca di stimolare la dimensione mnemonica dello spettatore, un’evocazione proustiana e sognante, ma sempre ricondotta a un discorso di critica alla società di oggi o del passato, oppure di entrambe. Reminiscenze, per restare con Proust, che a volte assumono addirittura una valenza politica. In realtà, il film è espressione del cinema d’autore della memoria, che fa del frammento apparentemente eterogeneo la sostanza in grado di creare nuove tessiture della materia cinematografica, intesa come materiale visivo da rigenerare, assorbendo in modo libero tutte le disomogeneità immaginabili. E spesso, soprattutto nel caso di Grand Tour, il frammento è anche sonoro e non solo visivo, essendo il cinema l’arte della fotografia in movimento, così come dell’immagine in sincrono con il suono, dalle infinite sperimentazioni possibili.
Francesco Boille – internazionale.it
…In Gomes, che muove da Somerset Maugham (Il signore in salotto) per incontrare la temperie di Lav Diaz e financo i gorgheggi di Wong Kar-wai e le relazioni di Kim Ki-duk, c’è una complessione drammaturgica, una facilità narrativa e una trasfigurazione poetica con pochi eguali, capace di manipolare con garbo e nitore non solo il visibile, ma il temporizzabile, facendo di Grand Tour ritorno al futuro e, più, macchina del tempo. Sopra tutto, elegia di un dispositivo, il Cinema, irriducibile alla realtà, devoto all’immaginazione, concesso al sogno. Non per tutti, ma un Grand Tour prezioso.
Federico Pontiggia – cinematografo.it