Justin Kemp viene chiamato come giurato in tribunale durante un processo per omicidio molto delicato. L’uomo accetta, ma ciò che accade durante il processo lo mette seriamente in crisi: ripenserà a un incidente avuto in passato e si renderà conto di essere coinvolto personalmente nel caso che deve giudicare.
Juror #2
USA 2024 (114′)
Arrivato a 94 anni, Clint Eastwood firma una pellicola dal fortissimo rigore formale, tanto da poterla definire un’ennesima operazione dal taglio classico della sua straordinaria carriera. Justin Kemp è ancora una volta un tipico antieroe che richiama molti altri personaggi della sua filmografia: un uomo che da giudice si scopre essere carnefice, finendo per poter diventare la vittima di un sistema in cui cerca in tutti i modi di fare la cosa giusta, provando però contemporaneamente anche a salvare se stesso. Eastwood ragiona sull’etica della giustizia e sulla morale, riprendendo tematiche trattate in (grandi) film come Million Dollar Baby (2004) e Gran Torino (2008), soltanto per citarne qualcuno. La narrazione si fa sempre più incisiva col passare dei minuti, anche se i flashback soffrono di alti e bassi: da un lato funziona la scelta à la Rashomon di mostrare dettagli diversi a seconda delle versioni dei fatti, dall’altro però le sequenze ambientate nel passato a volte finiscono per togliere ritmo alla sceneggiatura e c’è anche qualche ralenti di troppo decisamente non necessario. Anche la parte conclusiva è un po’ macchinosa, ma fatte queste eccezioni il film è fluido e coinvolgente, capace di farci prendere la posizione di Kemp e di farci riflettere su come ci saremmo comportati al suo posto. C’è qualche eco da La parola ai giurati di Sidney Lumet, ma questo resta un film eastwoodiano al 100%, anche per il coraggio con cui si trattano tematiche tutt’altro che semplici, senza mai cadere nella retorica o in orpelli stilistici che non hanno praticamente mai avuto a che fare con il cinema di questo grande attore e regista.
longtake.it
Giurato numero 2 è di quei court room movie apparentemente convenzionali, dove però gradualmente emerge la robusta e sostanziosa regia eastwoodiana con un finale da urlo e il classico piacere da dibattito post visione. Tra i dodici giurati di un tribunale di Savannah in Georgia chiamati a seguire e sentenziare la colpevolezza di James, presunto violento assassino della fidanzata Kendall (Francesca Eastwood, figlia di Clint), spinta giù per un ponte contro le rocce in una notte di pioggia dopo un litigio in un affollato bar, c’è il giornalista Justin Kemp (Nicholas Hoult). Il ragazzo preferirebbe subito svignarsela per rimanere a casa con la moglie (Zoey Deutch), giunta ben oltre a metà gravidanza, ma non sussiste alcun motivo procedurale per mandarlo a casa. Justin, poi, subito trasale perché la dinamica dell’omicidio esposta in aula, e per la quale l’imputato stragiura di essere innocente, ricorda in maniera impressionante il momento in cui nella stessa notte buia e piovosa Justin aveva spaccato mezzo cofano dopo aver accidentalmente investito quello che ha sempre creduto essere un cervo. L’agnizione è presto fatta con una rapida raffica di rashomoniani flashback: Justin è l’assassino involontario di Kendall, ma il suo passato da alcolista accentuerebbe un’ipotetica pena verso una galera a vita. Scosso dalla possibilità sia di condannare un innocente, ma anche di schermare la sua sconosciuta colpevolezza, in camera di consiglio proverà a convincere gli altri 11 colleghi giurati che mancano prove concrete per la condanna di James. Una strategia per salvare capre e cavoli che però gli si torcerà apparentemente contro. Insomma, una specie di Delitto e Castigo screziato di alcolismo – su cui, per dire, un Woody Allen ci ha ricamato per anni le sue non proprio tarde motivate fortune – viene amalgamato dallo sceneggiatore Jonathan Abrams tra echi spettacolari alla Grisham e sottotrame socio-politiche più affini ai rovelli eastwoodiani (…) È su questo latente senso di colpa individuale, su questa etica pubblica sfuggente in cui bene e male sembrano continuamente confondersi, che Giurato Numero 2 si libra cristallino tra il più classico impianto da thriller processuale e una sofisticata chicca autoriale del più grande vecchio autore della vecchia Hollywood (…) Giurato numero 2 dura quasi due ore ma fila come un treno. Hoult è bravo a recitare svuotandosi da ogni fuorviante empatia con lo spettatore, mentre il corollario di co-protagonisti interloquisce, pungola, brandisce interrogativi fino a spostare in maniera costantemente impercettibile l’asse di senso e attesa della conclusione.
Davide Turrini – ilfattoquotidiano.it
C’è un’inquadratura, verso il finale di Giurato Numero 2, che, senza preavviso, ci ricorda un altro commiato eastwoodiano di quasi trent’anni fa. È quello di Mezzanotte nel giardino del bene e del male, dove la statua della Bird Girl sovrastava il cimitero di Bonaventure a Savannah, in Georgia, testimone di una cinica parabola su quanto la giustizia non possa essere sempre all’altezza della verità e viceversa. Qui, nella quarantaduesima regia di Eastwood, siamo sempre in Georgia e c’è un’altra statua che, maestosa e ieratica, osserva gli eventi, dall’incipit esplicativo all’epilogo simbolico: è la Giustizia, appunto, nella sua rappresentazione più tipica, la Dea quindi una donna. Proprio di lei, della giustizia e di quanto possa “reggere” la verità, si parla, in un dialogo magnifico che annuncia l’epilogo di Giurato Numero 2 e contiene l’etica, l’urgenza, lo sguardo di un autore, Clint Eastwood, e di un film che ne rappresenta ineluttabilmente il compendio (su sceneggiatura di Jonathan A. Abrams). È la parabola di un uomo tormentato (Nicholas Hoult clamoroso: recita con occhi azzurri sempre più liquidi e sostiene primi piani quasi insostenibili), chiamato all’appuntamento della vita (la moglie sta completando una gravidanza a rischio), messo di fronte al bivio (che fare quando sai che si sta per commettere un’ingiustizia ma non puoi opporti?), perseguitato da demoni (l’alcolismo superato grazie all’amore e sfiorato al cospetto di un dolore), lacerato dalle conseguenze delle proprie azioni (…)
Arriva al dunque, Eastwood, non ha tempo da perdere. Prendete i flashback del protagonista: la serata del delitto non viene ricostruita a poco a poco, capiamo subito qual è il problema, al massimo si possono aggiungere dettagli che lo devastano sempre più, ma il grosso è fatto. Perché Eastwood è onesto, non vuole girarci attorno e non intende cedere alla retorica. Giurato Numero 2 ha il passo quieto del classico, il colpo dritto del grande intrattenimento, il nitore del racconto morale, la maturità di chi ha una precisa idea di mondo. La parola ai giuratii, va da sé, è una referenza evidente, anche perché, al pari di Sidney Lumet, a Eastwood non interessa tanto ciò che accade nell’aula di tribunale – gli serve per illustrare il caso e inquadrare lo schema processuale, dunque narrativo: i fatti sono ciò che raccontiamo, non necessariamente ciò che è accaduto – quanto piuttosto concentrarsi sui personaggi – sulle funzioni, addirittura – che innescano il meccanismo (…) Eastwood trascende il pessimismo nella malinconia, preferisce l’esercizio del dubbio alla facilità del dogma e ci ricorda che un mondo perfetto non esiste. È il suo ennesimo film terminale (quanti da Gran Torino?) e, allo stesso tempo, l’ennesimo film che interroga le cose che davvero contano. Come quella scena finale, muta e lancinante, che si incastona nella memoria.
Lorenzo Ciofani – cinematografo.it