Fremont

Babak Jalali

La vita della ventenne Donya cambia radicalmente quando, da traduttrice afgana per il governo americano trova lavoro come scrittrice di messaggi per i biscotti della fortuna nella cittadina di Fremont.

USA 2023 (91′)

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   Quarto lungometraggio dell’iraniano-britannico Babak Jalali, Fremont prende il titolo dal ghetto popolare della comunità californiana, nella Bay Area, da molti chiamata Little Kabul perché ospita una delle più grandi enclave di afghani negli Stati Uniti. Qui ha trovato rifugio anche Donya, che trascorre le sue giornate nell’attesa di qualcosa: tra la scrittura dei biglietti da nascondere nei biscotti della fortuna e le quotidiane cene in un ristorante cinese gestito da un anziano appassionato di soap opere, vive con il complesso di colpa di essere non solo una sopravvissuta ma anche un’espatriata (anzi, spatriata, a sottolineare l’irregolarità dei vagabondi, lo smarrimento delle persone interrotte, il desiderio di sfuggire alle convenzioni). Per convivere con un trauma che si manifesta soprattutto di notte, quando l’insonnia le impedisce di dormire, riesce in modo rocambolesco a diventare la paziente di un terapista. Che, con un atteggiamento spesso bizzarro, la mette di fronte ai sogni e ai bisogni che albergano oltre il suo sguardo guardingo. Non è un caso che Fremont si articoli per immagini fisse e quadri monotoni, scegliendo i movimenti di macchina solo quando Donya si mette on the road, investendo lo status di rifugiata dell’essenza del racconto americano (il viaggio come metafora). E portando Donya fuori dai confini e dai limiti di Fremont, concedendole la possibilità dell’amore che si merita. Scritto da Jalil con Carolina Cavalli (che nel 2022 ha esordito alla regia con Amanda), passato al Sundance Film Festival 2023 e in Concorso Progressive Cinema alla Festa di Roma, Fremont è un film molto equilibrato (a volte troppo, ma l’understatement è una vocazione), character study e spaccato malinconico che con sobrietà e misura sa trasmettere l’ineluttabile tendenza alla reiterazione, al ripiegamento e all’inibizione di un monocorde paesaggio con figur(in)e. E lo mette in connessione con il desiderio di emancipazione sentimentale di una ragazza (ben resa dalla newcomer Anaita Wali Zada, una rivelazione per capacità di sottrazione e interpretazione in levare) che forse nella vita ha già visto troppo, che nei biscotti non sa non inserire la promessa di una gioia futura (“la felicità è in un altro biscotto”, scrive per prendersi beffa del destino e di chi cerca nella sorte la risposta impossibile) e che, di fronte all’ipotesi di una svolta, capisce di dover accogliere tutto.
C’entrano un misterioso regalo, un’automobile in panne e un meccanico che ha gli occhi tristi di Jeremy Allen White, a cui bastano i dieci minuti finali per imprimersi nella memoria: con il carisma di chi sfrutta al meglio timidezza e imprevedibilità, entra in campo con atteggiamento quasi scettico, si lascia coinvolgere dall’atmosfera e illumina la scena dando la misura di cosa sia un film romantico (“Non ho mai conosciuto una ragazza afghanistana” è di una tenerezza disarmante)…

Lorenzo Ciofani – cinematografo.it

  Perché nonostante la molteplicità e profondità degli elementi narrativi, la storyline è semplicissima e quasi del tutto priva di azione. Segue un segmento della vita di Donya (Anaita Wali Zada), ex traduttrice afghana che, dopo aver collaborato in terra con gli Stati Uniti guadagnandosi l’astio della sua famiglia, è fuggita in America prima che i talebani tornassero al potere. A Fremont, in California, si è tumulata in un minuscolo monolocale dove ha iniziato a soffrire di insonnia (teme gli incubi che potrebbero generare i suoi ricordi), vivendo circondata da un gruppo di afghani scappati dal regime e lavorando in una fabbrica di biscotti della fortuna dove compone enigmatici e ironici biglietti che racchiude in un involucro di farina e zucchero. È in questo contesto di stasi completa dove, le sembra, tutte le speranze sul futuro sono state cancellate dal suo esilio, che un giorno decide di nascondere in un biscotto un messaggio differente. Ci scrive “Alla disperata ricerca di un sogno”, poi lo firma e aggiunge il suo numero di telefono. Con le sue scene statiche, i silenzi divertentissimi – il Financial Times ha lodato la sua «impassibilità inaspettatamente comica» – gli spazi disabitati ed espansi anche quando sono perimetrati dai muri di una stanza (è come se gli ambienti domestici avessero la stessa pasta delle periferie disperse di David Lynch, come se un oscuro presagio di immobilismo mortale ci si infiltrasse), Fremont è forse il film più sobrio che abbia mai visto. E, probabilmente, il miglior esempio recente di “cinema indipendente perfetto”. Con un sobrio bianco e nero e una sobria fotografia, una straordinariamente sobria colonna sonora Jazz e un sobrio uso delle parole, è la miglior materializzazione di quanto una vita comune possa essere anche cinematografica nella sua complessità. Per le connessioni umane che instauriamo e per ciò che può sorprenderci, anche se ci sembra che ogni giorno si ripeta uguale all’altro e ci arrovelliamo intorno all’inevitabile interrogazione sul senso profondo della nostra esistenza. La felicità, purtroppo, è un talento.

Corinne Corci – vogue.it

  Le immagini fisse, il budget ridotto (sotto il milione di dollari), i primi piani insistiti, il caldo bianco e nero firmato da Laura Valladao, così come la sceneggiatura e i dialoghi (o meglio, i silenzi) co-firmati dall’autrice italiana Carolina Cavalli, rendono Fremont, quarto lavoro di Babak Jalali, regista iraniano-britannico, coerente col proprio tono, monocorde, bilanciatissimo, uno studio sul personaggio perfettamente a fuoco ma anche estremamente rigido. Donya, infatti, ottimamente resa dall’esordiente Anaita Wali Zada, che sovrascrive nella protagonista i sofferti trascorsi esistenziali (anche lei afgana e rifugiata), è il centro immobile del suo piccolo mondo, che gira apparentemente a vuoto. Il plot costruisce in maniera lentissima la metafora di una nuova consapevolezza, un’occasione lavorativa del tutto inaspettata: da impacchettare i biscottini a scriverne il contenuto è un passaggio rivoluzionario, il rifiuto di una sicurezza imposta con il desiderio di poter influenzare la vita, finalmente, la sua e quella degli altri. Come spiega, infatti, il proprietario della fabbrica, il cinese Ricky: “i messaggi della fortuna sono una responsabilità perché incidono su una miriade di cose.” In Fremont, tutto ciò rappresenta lo scossone che mette in moto, letteralmente, la protagonista. Ci sarà, infatti, un momento on the road dove spunta un altro imprevisto e l’apparizione, sommessa e luminosa insieme, di Daniel. È interessante notare come la quotidianità di Donya, tanto ordinaria e comune a milioni di persone risulti così lontana dalla sua vita precedente, di cui Jalali decide di farci ascoltare solo il racconto neutro e impassibile della ragazza, quando bonariamente interrogata dal suo psichiatra. Il senso di colpa di Donya non è propriamente quello di aver collaborato con gli americani, ma piuttosto di aver lasciato il suo Paese, una fortuna che altri non possono vantare, perché rimasti oppure non sopravvissuti alla guerra. Tuttavia, questa importante cornice storica, attualissima, viene messa in disparte in favore del racconto intimista, fortemente caratterizzato dall’idea di cinema del suo autore. Persino l’insonnia di Donya è mostrata come un quadro in cui ogni luce è al suo posto e che non scuote chi dovrebbe viverla, o chi la osserva…

Domenico Ippolito – ondacinema.it

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