El Paraíso

Enrico Maria Artale

Julio Cesar, quarantenne di origine colombiana, vive con sua madre in una casa sul Tevere. I due conducono un’esistenza quasi simbiotica che li porta a condividere tutto, dalla passione per i balli latinoamericani al lavoro come corrieri della droga. Un legame che verrà stravolto dall’arrivo di una giovane colombiana, Ines, coinvolta anche lei nel traffico, che scatenerà tensioni e gelosie.

Italia 2023 (106′)
VENEZIA 80° – Orizzonti:  miglior sceneggiatura, miglior interpretazione femminile

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   Guardando El Paraíso si ha la sensazione di trovarsi di fronte a un’opera dal retrogusto latino. C’è la Colombia di mezzo, questo dice già tanto. C’è la protagonista Margarita Rosa de Francisco, lo spagnolo con cui parla al figlio interpretato da Edoardo Pesce, mescolato al suo romano. Ma è il colpo d’occhio che agisce nell’immediato. Che catapulta in tutt’altra filmografia rispetto a quella del litorale laziale. La storia è quella: due piccoli spacciatori, madre e figlio, che trascorrono le proprie giornate a ricevere corrieri dall’estero, tagliare cocaina e passare la serata a ballare (salsa, bachata, merengue preferibilmente). Il tema, però, è universale: il cordone ombelicale che non riusciamo mai veramente a strappare, portando dentro di noi i nostri genitori. E se quell’estetica latina sembra solo suggerita, ha anche un autore che, nel suo piccolo, ha contribuito a portare Enrico Maria Artale a completare, dopo circa sette/otto anni, l’opera presentata in anteprima nel concorso di Orizzonti di Venezia 80 – e vincitrice per la miglior sceneggiatura e miglior interpretazione femminile (…)

I colori sono latineggianti. L’attenzione non è solo nelle musiche, passionali e dai testi tragicissimi anche mentre ci si dimena sulla pista da ballo, ma è su di un’estetica in cui personaggi e pubblico affogano nel blu degli infissi, del portico fuori casa, nelle camicie sbrilluccicose e nei completi vintage. Cuscini, fodere e luci che anestetizzano come fossimo nel liquido amniotico, primordiale. Tornare nel grembo e, lì, restare. Tornare dentro le nostre madri. Madre da cui Julio (Pesce) non si è mai allontanato, attaccato alla gonnella della donna che lo ha costretto a rimanere un ragazzino. La sessualità dell’uomo è immatura, impacciata. È castrata da un genitore che entra in camera perché non riesce a dormire, e lo interrompe quando è solo, anche mentre si masturba. È piena di senso di colpa. È sentirsi feriti, non sapendo come riuscire a cicatrizzare i graffi. Non attraversando mai una vera adolescenza, rimanendo ingenui, acerbi, confusi. Ed è un attimo che il dispiacere o la litigata diventano poi armi da poter utilizzare, soprattutto per soggiogare chi ci ama. È per questo che Julio si ritrova impotente di fronte alla gelosia (edipica, ma anche egoistica e a tratti hitchcockiana) del personaggio di de Francisco – o “madre”, come è semplicemente denominata. L’amore che non è libertà di esprimere i propri sentimenti, ma è impedire di poterne provare altri “all’infuori di me”, per un duo che viene spezzato nel momento in cui nella vita dei protagonisti va ad intromettersi una giovane ragazza, Ines (Maria del Rosario). A Julio si apre un mondo. C’è la possibilità di fuggire (e lo fa da una finestra), di poter svagarsi (scegliendo di ballare su musiche non scelte dalla madre), di poter viaggiare (desiderando di andare in Colombia). Ma eccolo il pentimento, il cruccio. Di nuovo il senso di colpa. Il tarlo martellante di un ricatto emotivo da cui è impossibile scappare, faticoso dopo esserne stato vittima per troppo tempo. Fuggirne potrebbe significare raggiungere El Paraíso, l’emancipazione. Ma El Paraíso è anche la terra natale della madre del protagonista e da lei – dalla Madre – purtroppo non si scappa (…) Nel caldo avvolgente de El Paraíso, umido e appiccicoso anche mentre i personaggi si muovono in pieno inverno, Artale mostra che saremo sempre figli in difetto di fronte alle nostre madri, esseri superiori. Nella vicinanza, nei dispetti, nell’amore. Nella pancia in cui sentiamo tutto e in cui tutto inizia, parte e ritorna.

Martina Barone – hollywoodreporter.it

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