Palermo, 2015. Leonardo, 19 anni, lascia la città natale per raggiungere la sorella a Londra e iniziare gli studi di Business. Tuttavia, l’entusiasmo iniziale presto svanisce. Inquieto, si iscrive d’impulso all’Università di Siena per studiare letteratura. Ma anche qui, molla il corso e decide di immergersi da solo nello studio dei testi di “bella lingua” italiani. Sarà un anno accademico di solitudine, sporadica e strana socialità e confronti generazionali. Un anno dopo, Leonardo è a Torino, dove incontra un uomo, semi-conoscente di famiglia, con cui avrà un confronto più diretto del solito.
Italia/UK 2024 (109′)
VENEZIA – Diciannove, di Giovanni Tortorici, assomiglia molto a quei film di cui ci si augurava da tempo la venuta: semplice, personale, sincero. A gettare uno sguardo sul panorama cinematografico della penisola, si vede bene come l’antica litania che ne lamentava l’imminente sfacelo a suon di commedie e cinepanettoni sia ormai acqua passata. La verità è che il cinema italiano si è scoperto negli ultimi lustri – più che semplicemente serio – assai serioso, declinando i suoi vizi nella direzione di una drammaticità insistita e formalmente artefatta, che sembra non abbandonarlo neppure nelle sue manifestazioni più squisitamente di genere (o, meglio, dell’unico genere esterno alla commedia che sia oggi unanimemente accettato e sostenuto dall’industria, vale a dire il poliziesco). Quel che manca non sono allora giovani registi che sappiano svecchiare forme ormai desuete, ma autori capaci di uscire dal perimetro di schemi narrativi e modi di visione che rischiano di farsi stantii.
Tra le molte vie per perseguire questo ragguardevole intento, Giovanni Tortorici ha scelto per il suo esordio quella piuttosto impervia dell’autobiografia adolescenziale, aggettivo che da un lato contestualizza il titolo – le vicissitudini di un diciannovenne all’alba della prima esperienza universitaria – dall’altro descrive lo spirito inquieto, eccessivo e insolente, che ha presieduto alla realizzazione del film, incoraggiando l’esercizio senza freni delle ossessioni e dei vizi del suo autore. E perché mai, è legittimo chiedersi, tutto ciò dovrebbe riuscire in un valore positivo? Perché è per il tramite di questi atteggiamenti che viene iniettata nel film una dose di sincerità del tutto impossibile da scovare in qualsiasi prodotto analogo – magari più formalmente curato, magari meglio girato – degli ultimi vent’anni. Anziché partire, come spesso accade, dalla voglia di raccontare una storia, piegando il cinema a valore esornativo, Tortorici è partito dall’urgenza di fare del cinema, dal desiderio di mettere in scena non più una narrazione, ma un pensiero, uno stato della mente, senza fronzoli e senza belletti. Non fatichiamo a immaginare come alcune scene siano nate: un’intuizione improvvisa, la volontà di fissare in immagini un’idea. E poi: una breve scrittura, giusto qualche appunto, à la Godard, una chiamata agli amici più intimi, corresponsabili dell’insolenza che più avanti sarà il film, e infine una rapida esecuzione, con l’irresponsabilità di chi dichiara fedeltà solo a se stesso e al proprio sentire. Il fatto che ci sia Luca Guadagnino (di cui Tortorici è stato in passato aiuto regista) alla produzione e che questo, di fatto, denunci uno scenario produttivo assai meno romantico e più tradizionale di quello appena immaginato non fa alcuna differenza. L’importante non è che le cose siano andate così, ma che il film ci lasci in ogni momento questa impressione Nouvelle Vague di un’opera in cui il sentimento della visione e quello dell’esecuzione coincidono.
La trama è poca cosa in un cinema di idee come questo, ma a volerla racchiudere in breve diremmo che racconta di Leonardo, diciannovenne palermitano alla ricerca di una identità e di un qualche sollievo all’inquietudine che sente montare ogni qualvolta si confronta con il mondo. Va a Londra, dalla sorella, per iniziare l’università, ma ben presto si accorge di non avere alcun interesse per l’economia. Uno stacco di montaggio repentino ci precipita allora a Siena, dove lo ritroviamo a seguire un percorso di Lettere classiche, ma il suo amore stralunato per gli autori tra Trecento e Barocco e il rifiuto radicale e ossessivo del Novecento – perché in quel secolo gli autori scrivono male e hanno distrutto la lingua – non è altro che il riflesso di un’indole chiusa in se stessa e poco propensa al dialogo con un mondo che non si capisce e da cui non si è capiti. La stanza malconcia che abita, di cui in uno slancio di sinestesia non esitiamo a inferire l’olezzo di plastica bruciata, è la matrice di tutte le stanze degli universitari d’Italia: un letto sfatto, un fornelletto comprato a due soldi e di non maggior valore, libri sparpagliati ovunque e ovunque sacchetti di pasta e cibarie assortite. Raramente il cinema italiano ha saputo cogliere con tanta freschezza i disagi della vita da fuorisede. Ci aveva provato anni fa il bel Fino a qui tutto bene (2015) di Roan Johnson (divenuta celebre la clip in cui uno dei protagonisti svela la ricetta della pasta con nulla, salvavita di ogni fuorisede), ma quello era in fondo un racconto di amicizia e le storture del coinquilinaggio non potevano trovarvi posto, se non filtrate da una narrazione parzialmente consolatoria. Nessuna consolazione, invece, per Leonardo, che vive con le coinquiline – siano essere studentesse pisane o la sorella in quel di Londra – tutti i disagi che normalmente animano e inquietano le forzate convivenze tra esseri troppo distanti e incapaci di comprendersi l’un l’altro.
Sebbene si possa essere indotti a tacciare il film di spirito reazionario, è bene sottolineare come la questione sia altra: sulla scia della squisitezza barocca, Leonardo si approccia a una visione del mondo che fa dell’estetica un’etica, dello stile uno sguardo prospettico sulle cose. Nel ritmo dei metri chiusi, che scandisce a voce alta nella cameretta per riempire gli spazi miseri con la melodiosa sacralità di quei ritmi, nel verseggiare ipotattico del Leopardi delle Odi, nel pensiero limpido del Tommaseo che legge Dante, Leonardo trova l’accesso a una bellezza che il pensoso, l’astruso, il convulso Novecento sembra aver ripudiato, e con essa la necessità di una nuova morale, rigorosa e intonata come un endecasillabo. E Fenoglio? E Pasolini?, lo redarguisce, sul finale, un intellettuale torinese in un confronto dal sapore quasi teatrale, che stona volutamente con la spontaneità di cui il film si era sin lì agghindato e ci riporta alla mente quell’altra intrusione da palcoscenico, che, in È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, apre alle raccomandazioni di Antonio Capuano al giovane protagonista (“Non ti disunire!”). Nei saloni zeppi di collezioni d’arte novecentesca, il vecchio lacaniano ammonisce il giovane intellettuale sui rischi del fanatismo, ma a quel punto il film ci lascia, senza finire, com’è giusto che sia. Come un pioniere del mezzo, come il Jean Vigo di À propos de Nice (1930) o il Godard dei primi cortometraggi, il regista affronta con sfacciata spudoratezza temi e stilemi, dando vita a un vero e proprio catalogo di grammatica sperimentale: inserti animati, freeze frame, zoom, intertitoli a tutto schermo, stacchi improvvisi, sguardi in macchina, ralenti e distorsioni. In poco più di un’ora e mezza, attentando consapevolmente a qualunque buon gusto, Tortorici dà corpo a un film di impressionante genuinità, di fronte al quale, come scriveva Truffaut ragionando sulle pellicole del primo Renoir, si prova l’impressione di scoprire le cose contemporaneamente al cineasta, anziché farsi soffocare da lui.
Matteo Pernini – MCmagazine 96