April

Dea Kulumbegashvili

Dopo la morte di un neonato durante il parto, l’etica e la professionalità di Nina, una ginecologa, vengono messe sotto esame per via di voci secondo cui eseguirebbe aborti illegali per chi ne ha bisogno.

Georgia/Francia/Italia 2024 (134′)
VENEZIA 81°: Premio speciale della Giuria

VENEZIA – L’incipit è paralizzante: una figura mostruosa, decrepito abbozzo, si staglia nel nero e camminando faticosamente su una superficie lucida si allontana lentamente nel buio, creando una tensione che non abbandona più lo spettatore. Si apre così, con una delle immagini più inquetanti di tutto il Festival, April, il secondo lungometraggio della regista giorgiana Dea Kulumbegashvili (coprodotto da Luca Guadagnino, che come presidente della Giuria del Festival di San Sebastian aveva molto creduto nella giovane regista, pluripremiando la sua opera prima, Beginning)

    L‘immagine successiva, con forte contrasto, ci porta nella vita ordinaria di Nina (Ia Sukhitashvili) , ostetrica e ginecologa in una zona rurale della Georgia, tra attività quotidiana in ospedale e solitudine personale. Assistiamo al parto di una giovane sposa, ma la morte del bimbo e la denuncia del padre portano l’ospedale ad aprire un procedura di indagine a carico di Nina. Di fronte alla preoccupazione del suo collega, nonché ex partner (Kakha Kintsurashvili), per questo procedimento e per le voci che circolano nel villaggio sugli aborti clandestini praticati dalla ginecologa, la donna rimane imperturbabile. Nella dimensione professionale Nina è una persona che porta avanti con determinazione la sua battaglia: in un mondo rurale ancora patriarcale, cerca di far emergere la voce delle donne, di educarle segretamente all’uso degli anticoncezionali e, quando le situazioni disperate lo richiedono, accetta di interrompere le gravidanze. Al collega che le ricorda che così facendo mette a rischio la propria carriera, la protagonista risponde di essere costretta a essere coraggiosa dalla mancanza di coraggio degli altri. E sono parole che pesano. Ma il film non è (solo) un manifesto politico: è una discesa nella complessità di una personalità. Se nella dimensione pubblica Nina è una donna sicura delle sue idee, delle sue scelte, delle sue azioni, nel privato il suo comportamento evidenzia una condizione irrisolta , soprattutto nella relazione: le serate di Nina sono fatte di solitudine o di ricerca di rapporti sessuali veloci e quasi brutali, nel buio di strade remote. E la figura mostruosa dell’incipit, che ricompare a tratti, ci fa scendere ancora più nel profondo del suo disagio interiore, dove si annidano le emozioni, le paure e il dolore: la scena dell’abbraccio con il suo ex, prima nella realtà e poi nella rielaborazione profonda è chiarissima in questo senso.


La peculiarità di April è di non cercare di raccontare o spiegare, ma di mettere in scena la stratificazione della personalità di questa donna esaltando le potenzialità del linguaggio cinematografico. La regista lavora con grande rigore su fotografia e costruzione del quadro, lasciando respiro alla durata delle inquadrature che attraverso le geometrie o la tensione verso il fuori campo sviluppano un discorso più eloquente delle parole. Due esempi. All’interno dell’ospedale domina un’immagine nitida, algida, sterilizzata e la composizione del quadro disegna la geometria delle relazioni: tra Nina e il suo ex compagno, tra il Primario e i due medici, tra i tre medici e il padre del bambino morto nella sequenza finale. Nel mondo del buio molta importanza ha il suono, che attraverso il respiro ci fa entrare nell’interiorità della protagonista. Questo viaggio senza parole negli abissi profondi di una donna coraggiosa ha pienamente meritato il premio ricevuto alla 81esima Mostra Cinematografica di Venezia.

Licia Miolo MCmagazine 96

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