All We Imagine As Light – Amore a Mumbai

Payal Kapadia

A Mumbai, la routine dell’infermiera Prabha viene sconvolta quando riceve un regalo inaspettato dal marito, con il quale non ha più rapporti. Mentre la sua giovane coinquilina, Anu, cerca invano di trovare un posto in città dove poter stare in intimità con il suo ragazzo. Un viaggio in una cittadina di mare per accompagnare un’amica permetterà loro di trovare uno spazio – un altro stile di vita – dove i loro desideri possano prendere forma..

Francia/India/Paesi Bassi/Luss/Italia 2024 (110′)
CANNES 77° – Gran Premio della Giuria

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   Avete presente quei film che possiedono innata e spontanea grazia? Che da dovunque li prendi e li vedi, anche solo singole sequenze o singole inquadrature, senza sapere nulla del resto, ti fermi, rimani rapito e dici “che meraviglia”? Ecco, Amore a Mumbai (meglio il titolo originale All we imagine as light) è uno di quei film lì. Sarebbe bello entrare in un cinema e scoprirlo minuto dopo minuto senza sapere nulla, sorpresi da quella magia che le storie apparentemente e geograficamente lontane possono ancora trasmetterti. (…) Da un iniziale minuetto tutto sulle punte e sugli angoli urbani si scivola in un magmatico sciabordio acquatico rossastro roccioso. Dal quadro elegantemente pieno a quello apparentemente vuoto. Un gioco di prestigio cinematografico che è come il numero di un mago: ogni breve digressione narrativa, ogni dettaglio animale, naturale, ambientale (le scritte sulle rocce illuminate da uno smartphone) appaiono mute e dirompenti come da dentro un prezioso scrigno. Non c’è nulla in Amore a Mumbai che zoppichi, deluda, annoi. C’è invece un tutto così complesso e stratificato, amalgama di pochissime parole, sguardi di un’intensità sconvolgente, tonalità fotografiche che esaltano il contrasto tra oscurità e luce, zampilli dapprima di un pianoforte per la metropoli e poi sound eclettico più d’atmosfera, tanto da urlare dalla gioia di poterlo vedere.

Davide Turrini – ilfattoquotidiano.it

   I primi fotogrammi di All We Imagine as Light – Amore a Mumbai sono sfocati. Non si tratta di un errore di fotografia, ci appaiono così perché ripresi da un treno in corsa, uno dei tanti che attraversano l’enorme Mumbai. È una metropoli frenetica, almeno tanto quanto è sporca e disordinata. Non è il posto ideale per una storia romantica, eppure qualcuno ha pensato potesse esserlo. Payal Kapadiya, regista indiana con alle spalle una carriera divisa tra cortometraggi e documentari, ce ne ha raccontato due. Non ha voluto trasformare la città, l’ha lasciata così com’è, regalandoci un punto di vista privilegiato sulle vite di Prabha e Anu, due infermiere del reparto ginecologico dell’ospedale di Mumbai alle prese con il loro diverso bisogno d’amore. (…) All we imagine as light i è delicato e intenso, per nulla scontato, non è solo un film romantico, come ci fa credere quel terribile Amore a Mumbai aggiunto al titolo italiano, racconta la società indiana e il mondo femminile. Prabha e Anu si scontrano contro il bigottismo, la prima quasi lo accetta, ne è vittima ma non riesce a opporsi alle sue assurde regole, la seconda non lo capisce e lo rifiuta, sa che ciò che impone è totalmente anacronistico. La regista, Payal Kapadiya, ci rende spettatori della quotidianità delle due ragazze, raccontandocela così com’è, lasciandoci liberi sia di giudicare sia di comprendere al meglio una cultura, totalmente distante dalla nostra, che sta cambiando, anche grazie alle nuove generazioni. Nel parlare di Mumbai racconta le persone che l’abitano e che l’hanno costruita. È la città «fatta dalla povera gente», dove il benessere è un lusso per pochi eletti e chi non può accedervi è costretto a una vita di stenti. Per sopravvivere «bisogna credere nelle illusioni, altrimenti si impazzisce»: illusioni, non sogni. Anche Prabha e Anu vivono di illusioni e per far sì che non restino tali abbandonano la megalopoli, fuggendo da quella pressione sociale che gli abitanti di Mumbai esercitano sulle donne della città.

Andrea Zedda – vanityfair.it

  Arriva in sala uno dei film più belli, originali e soprattutto magici di quest’anno. Film d’esordio nel cinema di finzione della regista indiana Payal Kapadia, che lo ha scritto e diretto. Grande sorpresa del Concorso di Cannes di quest’anno, è arrivato negli ultimi giorni del festival, quando molta critica internazionale sentiva il bisogno di un film rivelazione che fino a quel momento mancava. E quindi il Grand prix, il secondo del palmares per importanza gerarchica, a All we imagine as light – Amore a Mumbai non è solo meritato, ma è anche la rivelazione di un nuovo talento senza uguali nella cinematografia internazionale. La regista di Mumbai riesce a fare un film universale, capace di parlare anche al cuore degli uomini perché, pur essendo incentrato sulle donne, e in particolare su tre donne, la solitudine rappresentata è quella di tutti, uomini compresi: quelli delle nuove generazioni soffrono e sperano come le donne. Altro grande film sulla solitudine contemporanea, in sala a poca distanza da Joker: folie à deux di Todd Phillips, All we imagine as light ne è l’esatto rovescio sotto ogni aspetto. È un film incantatorio come un carillon, ipnotico come le opere dei cineasti surrealisti. Rapisce come un oggettino desueto per bambini e ipnotizza nel profondo come un cinema che in occidente quasi nessuno sa più fare, compresa Hollywood, che un tempo ne traboccava. In All we imagine as light – situato tra la sera e la notte, la veglia e il dormiveglia – abbiamo il sogno come realtà.

Un film-sogno che definirlo intenso è insufficiente. In verità, Kapadia riesce – altro exploit, tra i molti – a realizzare un film fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni, per dirla con la frase più abusata di Shakespeare, narrando la quotidianità banale e quella problematica, anzi facendo perfino diventare la realtà, quella da documentario, un sogno (…) Del resto, tra le intenzioni dichiarate della regista c’è quella di fare un documentario come un sogno e viceversa, come pure di fare una fiction che sembra un documentario, e viceversa. E riesce a rilanciare con forza un concetto, quello dell’annullamento dei confini tra documentario e finzione – centrale nel cinema d’autore della fine degli anni novanta e inizio duemila – che sembrava quasi esaurito in termini di capacità d’innovazione.

 Francesco Boille – internazionale.it

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