I coniugi Madison, Fred e Renee, ricevono delle inquietanti videocassette che ritraggono l’interno della loro abitazione. Il responsabile potrebbe essere un uomo misterioso che conoscono a un party: al termine della festa, Fred passa una notte tormentata e ha la visione di se stesso ai piedi del letto di fronte al corpo smembrato della moglie. Un poliziotto lo sveglia e Fred si trova catapultato in un incubo che potrebbe non avere mai fine. Un noir complesso e vertiginoso, affacciato sugli abissi della follia. .
Lost Highway
USA 1997 (134′)
Telefonare a casa propria e scoprire che a rispondere è l’uomo che vi sta davanti in quel momento. Ascoltare il citofono di casa e sentire la propria voce affermare che un tizio è morto. Cambiare personalità a metà film e vedere un mondo che possiede lo stesso lessico ma un’altra sintassi. Lost Highway è tutto questo: una fuga psicogena, un viaggio scintillante e dark lungo le strade perdute di una dimensione surreale e inquietante, in un mondo governato dal mistero e dell’allucinazione, attraversato da ogni tipo di paradosso logico, da narrazioni che si avvitano dentro una spirale inspiegabile, perché “qualsiasi tipo di spiegazione si dimostrerebbe inadeguata, poiché un film è fatto per essere visto”
David Lynch
«Dick Laurent è morto»: si apre (e si chiude) con questa semplice frase uno dei film più affascinanti, ambigui e controversi di tutti gli anni Novanta. David Lynch firma la sceneggiatura insieme a Barry Gifford, lo scrittore di Cuore selvaggio, romanzo da cui il regista aveva preso spunto per la sua omonima pellicola del 1990. Aperto dalle emblematiche note di I’m Deranged («Sono impazzito») di David Bowie, Strade perdute è un viaggio circolare negli abissi della mente umana, in cui l’inizio coincide con la fine e la cui ispirazione potrebbe essere il nastro di Möbius. Lynch aveva già lavorato sul tema della (doppia) identità – si pensi alla serie televisiva I segreti di Twin Peaks (1990-1991) – ma non era mai stato così esplicito e non aveva mai azzardato tanto. Fred finisce in prigione e avviene una vera e propria metamorfosi: in cella c’è Pete Dayton (Balthazar Getty), un altro ragazzo con un’altra vita, che si scoprirà indissolubilmente legato a Fred grazie a una (stessa?) donna. Lynch muove a suo piacimento le dimensioni e i personaggi, inserendo nella finzione un suo corrispettivo: il demiurgico “mystery man”, regista interno al film che, non a caso, porta con sé una videocamera. I rischi di eccessivo contorcimento drammaturgico sono evidenti, ma i colpi di scena continui e le sequenze angoscianti tengono alta l’attenzione fino alla fine. Rimanere immuni alla bellezza ipnotica di Strade perdute è quasi impossibile: soprattutto nella splendida prima mezz’ora, grazie anche all’ottima prova di Robert Blake. È una svolta spiazzante e cruciale nel cinema del regista, che lascia intravedere alcuni elementi che verranno ripresi nei suoi due lungometraggi del primo decennio del nuovo millennio: Mulholland Drive (2001) e INLAND EMPIRE – L’impero della mente (2006).
longtake.it
…Lynch riafferma il diritto all’allucinazione, al delirio in celluloide e scaglia contro gli spettatori questo oggetto pauroso e inafferrabile, un viaggio nelle tenebre senza punti cardinali, un’opera decostruita che segue un itinerario straordinariamente coerente nella sua sfrenata libertà immaginativa. Un concentrato di sospensione e angoscia sono i primi quaranta minuti, di valore assoluto: la casa dei protagonisti, che non ha più niente di familiare o rassicurante, diviene labirinto mentale minaccioso e oscuro. Gli interni, inquadrati diagonalmente e quasi mai frontalmente, si fanno opprimenti: Fred annega in un’oscurità densa; le scene, separate da perentorie dissolvenze, si macchiano di indefinito; le parole stesse si intorbidiscono. In Fred il (bi-)sogno prende forma e, confondendosi con la realtà, si traduce in incubo materico: Pete, il giovane che prende il suo posto nella prigione, è una proiezione del marito tradito e assassino? La fuga di un’identità dal senso di colpa? Una sua creazione onirica? La chimera della giovinezza perduta? Un’altra persona? Il protagonista di un altro film? Sulla sottile linea grigia che divide Vero e Desiderio la trama si sfalda, la coerenza si sbrindella, i significati appassiscono, si tocca il Mistero. Le strade si perdono, ogni spettatore seguirà la propria e se il film si ricompone, pervenendo la fine al momento dell’inizio – Dick Laurent is dead, l’asfalto di una corsa notturna, le strisce della mezzeria illuminate dai fari (col senno di poi: i titoli di coda di un decennio) – il puzzle manca sempre di qualche pezzo. Nessun finale conciliatorio o volgarmente risolutore dunque, solo un groviglio di interrogativi appuntiti nel pugno: il senso latita, lo si sfiora soltanto, svapora in un istante come il lucore di una sigaretta nel buio.
Luca Pacilio – spietati.it
…Strade perdute fa scempio della continuità, coniugata al benesere visivo, per mostrarci una vertigine del pensiero, le infinite psicosi realizzabili dal nostro cervello. L’edificio lynchiano è strutturato come le scatole cinesi, nella grande si nasconde una piccola, mentre nella piccola c’è un universo, un mondo di realtà e di possibilità, ed è impossibile circuirlo o definirlo. Un edificio poggiato sulla demolizione, la demolizione di ogni senso logico, quasi inaccettabile perché esagerata, incompresa. Strade perdute è diviso essenzialmente in due grandi contenitori, due protagonisti, due storie, due vite, due azioni filmate, due narrazioni, due finali, l’atto però talvolta è obliato, non è stato ripreso, ma è accaduto ed è vero, ed è più vero di quanto non si veda…
Lucia Tedesco – cinematographe.it