Signe, gelosa della fama del suo ragazzo, decide di assumere un farmaco pericoloso con l’obiettivo di ricevere le attenzioni che crede di meritare. Il suo piano all’inizio sembra avere successo, ma la ragazza non ha tenuto conto delle conseguenze…
Syk Pike
Norvegia/Svezia/Danimarca/Francia 2022 (97′)
Signe è ossessionata dall’essere sempre al centro dell’attenzione. Quando la sua ambizione centripeta perde vigore, comincia a mentire, spesso sgambettando il fidanzato Thomas, artista-ladro bizzarro e narcisista quasi quanto lei, pur di stare sotto i riflettori e catalizzare ogni discussione sulla propria persona. Quando anche la mistificazione non basta più, Signe arriva ad assumere consapevolmente un grande quantitativo di droga illegale russa che le deturpa il viso e il corpo, al fine di essere, prima, compatita e, poi, portata in palmo di mano, esibendo con fierezza e coraggio quella che fa credere a tutti una malattia misteriosa. Sick of Myself, del regista norvegese Kristoffer Borgli è un saggio dissacrante e feroce sul narcisismo e sulla menzogna, punti cardinali di una società pronta a tutto pur di apparire. Disseminando qui e là tracce di cinema cronenberghiano (nella morbosa sensualità della mutazione fisica) ma anche la satira di Ruben Östlund, Borgli tratteggia davvero “la persona peggiore del mondo” (una bravissima Kristine Kujath Thorp), in preda a un delirio che, nel film, è reso anche da un efficace sovrapposizione tra la realtà e ciò che Signe brama e desidera sopra ogni altra cosa (ironica e sconcertante la sequenza del funerale immaginario). Destabilizzante e respingente. Eppure, nell’iperbole della carne martoriata e nell’alternanza tra essere e voler essere, non troppo lontano dalle derive della società di oggi.
Marco Contino – il Mattino di Padova
Non è un film gradevole, ma un film che sa usare la sua poca gradevolezza per catturare lo spettatore e portarlo a riflettere su uno dei grandi mali della nostra società: il narcisismo e — di conseguenza — il bisogno disperato del riconoscimento altrui. Sick of Myself, titolo internazionale di Syk pike (letteralmente: Ragazza malata) è uno degli specchi più urticanti in cui non vorremmo vederci riflessi perché finisce per mostrare, senza mezze misure né compiacimenti, a cosa ci sta conducendo e forse ci ha già condotto un mondo fatto solo di like o di follower. Scritto e diretto dal norvegese Kristoffer Borgli, un regista non ancora quarantenne con alle spalle molti corti e un solo lungometraggio, DRIB, circolato pochissimo e mai distribuito in Italia, Sick of Myself, ha una trama semplicissima: Signe (Kristine Kujath Thorp) lavora in un caffè e vive con un aspirante artista, Thomas (Eirik Sæther), che ruba oggetti d’arredamento per farne strane e astruse opere. La sua poetica — se così si può dire — ha attirato l’attenzione di una rivista specializzata che lo ha scelto per la sua copertina. E Thomas vive questi suoi «quindici minuti di notorietà» gonfiandosi come un tacchino, finendo più o meno involontariamente per ricordare a Signe quanto lui sia conosciuto mentre lei no. E così alla fidanzata frustrata non resta che trovare il modo per riequilibrare le cose. L’occasione gliela dà uno strano farmaco di produzione russa dichiarato illegale per gli inaspettati e mostruosi segni che lascia sulla pelle. Signe se lo fa procurare da un amico che naviga nel deep internet e inizia a sottoporsi a questa cura, aumentando sempre più le dosi come conseguenza alle compiaciute esplosioni di narcisismo del compagno. E gli effetti iniziano a farsi vedere, prima sul corpo e poi, vistosissimi, sul viso. Riuscendo così ad attirare un’attenzione che travalica presto i confini delle amicizie private e che la trasforma in una star mediatica, capace di conquistare sempre più notorietà. Lo spunto narrativo potrebbe fermarsi qui, con Signe pronta a giocare con la deformazione del proprio corpo, che ogni tanto mostra in tutta la sua sgradevolezza.
Ma l’interesse del film è proprio quello di andare oltre il giochino horror di un qualsiasi allievo di Cronenberg e intrecciare abilissimamente immaginazione e mondo reale. È tutto vero quello che succede intorno alla protagonista? Giocando con i sogni di Signe, il film cancella i confini tra ambizioni e realtà e porta lo spettatore a interrogarsi su quello che sta vedendo, prima spingendolo (grazie alla forza della finzione) a immedesimarsi nei «successi» o negli exploit della ragazza e poi riportandolo alla vera consistenza delle cose. Invece che ingabbiare il film in un più «tradizionale» percorso di ascesa e caduta, Borgli smonta in diretta le aspirazioni social costringendo la protagonista — e con lei lo spettatore — a prendere coscienza delle proprie esagerazioni. Certo, quello che ne esce è il ritratto di una società dove probabilmente nessuno vorrebbe vivere, dove sembra normale fare spettacolo delle proprie deformazioni e delle deformità altrui, ma è solo l’inevitabile conseguenza di una forma mentis in cui il narcisismo finisce per prendere la consistenza di una gabbia autoreferenziale e delirante, sempre più soffocante per chi vi è voluto entrare. In questo modo Sick of Myself, non fa altro che portare alle sue estreme conseguenze una strada che in molti sembrano magari inconsciamente voler imboccare, non tanto quella di chi vuole trasformare il proprio corpo in un’opera d’arte, ma — metaforicamente — quella di chi è disposto a esporsi e mettersi in mostra per attirare l’attenzione altrui. E per una volta l’infedeltà del titolo italiano riesce a cogliere l’essenza vera del film: malata di se stessa non è solo Signe (e come lei, in altre forme, anche Thomas), ma una società dove il nostro valore è misurato solo attraverso il riconoscimento degli altri. È proprio quello che vogliamo? Meditate gente, meditate.
Paolo Mereghetti – corriere.it