Taranto, 1997. Siamo negli anni della crisi dell’Ilva e della scellerata privatizzazione. Caterino, operaio insoddisfatto, diviene la spia del luciferino dottor Basile. Vittima e carnefice, Caterino è il fautore debole della legge del più forte, quella che ci fa accanire contro gli ultimi, che pretende di arrivare “prima” di tutti gli altri. La Palazzina Laf che dà il titolo al film è una sorprendente, surreale metafora. È un pezzo d’Italia che, purtroppo, esiste ancora, più vivo che mai.
Italia 2023 (99′)
1997. Caterino, uomo semplice e rude è uno dei tanti operai che lavorano nel complesso industriale dell’Ilva di Taranto. Vive in una masseria caduta in disgrazia per la troppa vicinanza al siderurgico e nella sua indolenza condivide con la sua giovanissima fidanzata il sogno di trasferirsi in città. Quando i vertici aziendali decidono di utilizzarlo come spia per individuare i lavoratori di cui sarebbe bene liberarsi, Caterino comincia a pedinare i colleghi e a partecipare agli scioperi solo ed esclusivamente alla ricerca di motivazioni per denunciarli. Ben presto, non comprendendone il degrado, chiede di essere collocato anche lui alla Palazzina LAF, dove alcuni dipendenti, per punizione, sono obbligati a restarvi privati delle loro consuete mansioni. Questi lavoratori non hanno altra attività se non quella di passare il tempo ingannandolo giocando a carte, pregando o allenarsi come fossero in palestra. Caterino scoprirà sulla propria pelle che quello che sembra un paradiso, in realtà non è che una perversa strategia per piegare psicologicamente i lavoratori più scomodi, spingendoli alle dimissioni o al demansionamento. E che da quell’inferno per lui non c’è via di uscita. Michele Riondino, tarantino, impegnato da anni a denunciare i soprusi che hanno colpito la sua terra, sceglie per il suo bell’esordio alla regia una piccola vicenda di lavoro e lavoratori. La Palazzina Laf che dà il titolo al film è una sorprendente, surreale metafora: è qui che il sogno fantozziano dell’impiegato fancazzista cambia di segno e si trasforma in un incubo, un girone dantesco in cui l’inattività forzata, il demansionamento immotivato, diviene un’arma micidiale nelle mani dei padroni.
longtake.it
…Storia infame della palazzina Laf (poi finita tardivamente a processo), ala in disuso del complesso siderurgico di Taranto utilizzata fino al 2005 dalla direzione della fabbrica come zona di confino per gli operai che per un motivo o per l’altro andavano “tolti di mezzo”, costretti così ad una sorta di macro-esperimento sociale di mobbing forzato (…) Ci pensa Michele Riondino, nel suo esordio alla regia, a donare caratterizzazioni umane a queste esistenze, popolando la sua versione della Palazzina Laf di personaggi che raccontano aspetti diversi del Meridione operaio, in un ritratto corale orchestrato in sceneggiatura insieme a Michele Braucci. L’intenzione è chiaramente quella di incrociare l’afflato sociale e il j’accuse con i toni della commedia grottesca, in una piena tradizione all’italiana oggi non più troppo frequentata: e da un certo cinema nostrano “civile” sporco e cattivo sembrano provenire anche le maschere tragiche, perennemente alterate e puntualmente irredente del protagonista Caterino (lo stesso regista) e del perfido dirigente Elio Germano. Ecco, il film ha la stessa trascinante energia del Michele Riondino agitatore, impegnato da anni in queste stesse lotte per la sua città, e nell’ormai storico Primo Maggio “libero e pensante” di cui è volto e cuore (…) Il tocco di Maurizio Braucci si percepisce soprattutto nell’afflato cristologico che la vicenda assume, Caterino che vede sé stesso come Giuda portato in processione accanto a Gesù, e la sequenza della lettera da consegnare al Vescovo durante la messa in fabbrica, dove Riondino indugia su croci e eucaristie. La dimensione del sacro è d’altronde una di quelle maggiormente percepite nelle zone dove si svolge la vicenda, e se c’è un aspetto in cui Palazzina LAF mostra sul serio le qualità del Riondino regista è proprio nel disegno della comunità, dei baretti con i tavolini di plastica, delle pause pranzo tra operai in tuta ancora sporchi di olio motore, uno spaccato che dimostra una gestione degli spazi già molto consapevole, i corridoi desolati dell’edificio del confino messi a confronto con i cunicoli tra le tubature della fabbrica, gli uffici signorili della dirigenza al piano di sopra, e la casa di campagna sgarrupata di Caterino. Non a caso, Riondino torna spesso a incunearsi tra l’ammasso di membra degli autobus che portano gli operai al lavoro, dove tutti gli intrecci politici, morali, sociali, esistenziali e privati che il suo film cerca di dipanare, convivono per lo spazio ristretto di un tragitto obbligato.
Sergio Sozzo – sentieriselvaggi.it
…L’ILVA di Taranto. Un universo a sé, controverso e complesso (eufemismi), nel quale c’era al suo interno un altro microcosmo. Appunto, il Laminatoio a Freddo. Per brevità chiamata la LAF. Un gruppo di dipendenti pagati per non lavorare. Fantasmi, o meglio dire zombie. Un lager in cui timbrare il cartellino, finendo a girarsi i pollici. Ora dopo ora. Tra una partita a carte e l’ennesimo caffè. Il mobbing nella sua forma più strana, per certi versi primordiale se pensiamo alla cornice temporale del film: 1997. Eccoci dunque nel complesso industriale dell’ILVA. Si lavora il metallo, anche se lì intorno “non c’è nemmeno una fabbrica di forchette”. Si lavora, si tossisce, e ci si ammala. Gravemente. Certi scandali non sono ancora stati portati alla luce, anche perché la direzione aziendale sembra ricorrere spesso e volentieri al “canarino” di turno. Qualcuno che ascolta e riporta le rimostranze degli operati, stretti tra i sindacati e la paga a fine mese. Tra loro c’è Caterino (interpretato dallo stesso Riondino), un uomo sempliciotto che vive accanto all’ILVA, insieme alla fidanzata Anna (Eva Cela) sognando di trasferirsi, prima o poi, in città. Fiuta l’opportunità quando accetta di fare la spia, seguendo e denunciando gli operai riottosi ai superiori (tra cui un grande Elio Germano, ambiguo e viscido). Quei colleghi che poi vengono spediti nella Palazzina LAF. Agli occhi stolti di Caterino tutto questo sembra il paradiso: si viene pagati per non fare nulla. Tuttavia, la finta promozione è invece una punizione inflitta verso uomini e donne defraudati del proprio orgoglio e delle proprie mansioni.
Sarebbe facile ridurre Palazzina LAF solo come cinema sociale, in stile Francesco Rosi, e infatti da parte di Riondino c’è una messa in scena che ammicca al pop, senza vergognarsi di risultare accessibile al pubblico, spingendo sulla grinta e sulla rabbia, prendendosi poi il coraggio di portare il discorso fino in fondo. Del resto, è questo che il cinema deve fare: arrivare. E Palazzina LAF, al netto di alcune indecisioni arriva forte e chiaro. Potere del pop, quindi. Come dimostra l’ottima colonna sonora originale di Teho Teardo (a proposito di musica, all’inizio c’è anche la hit The Bad Touch dei Bloodhound Gang!), oltre all’estetica di una fotografia (Claudio Cofrancesco) che per colori ricorda i film western. A guardar bene, come se fossimo nel Far West, la Palazzina LAF – e il concetto allargato dell’ILVA – è un non luogo fatto di acciaio e polvere, di precarietà e di punizioni; un universo disgraziato e brutale nel quale non ci sono regole, non c’è una sovranità. Un panorama dove gli sceriffi sono i fuorilegge, e i fuorilegge sono gli sceriffi, imprigionati in una galera senza sbarre. Come nel vecchio West, nella Palazzina LAF di Riondino anche i confini vengono annullati. Niente legge, allora, bensì, ecco la dittatura del “disinteresse” che, citiamo Riondino, “ha sacrificato un’intera città sull’altare del proprio capitale”. È questa, più di ogni altra cosa, l’intenzione primaria del regista, che stava scrivendo il film con il supporto del giornalista e scrittore Alessandro Leogrande (scomparso nel 2017): delineare la suggestione di un reparto lager, scovato e salito alla cronaca insieme al processo giudiziario a difesa dei 79 lavoratori coinvolti, scoperchiando l’assurda visione politico-e-sociale che attanaglia Taranto, ancor prima della cronaca corrente. Nel farlo, Riondino ha messo insieme i fatti grazie alle testimonianze di ex dipendenti ed ex confinati, strutturando un affresco filmico diretto, essenziale e asciutto. Lasciando dietro di sé una traccia di pericolose scorie.
Damiano Panattoni – movieplayer.it