Nella Parigi degli anni 30, un’attrice e un’avvocata, squattrinate ma di grande ingegno e ottima presenza, raggiungono successo e ricchezza grazie a una falsa accusa di omicidio e a una serie di teatrali arringhe capaci di colpire nel segno. Ozon rilegge con umorismo il vaudeville tra scontro di genere e gioco della messinscena.
Francia 2023 (102′)
All’origine di Mon crime c’è la piéce del 1934 di Louis Verneuil e Georges Berr nella quale Ozon distilla molte tracce del nostro contemporaneo, e lo fa con leggerezza, nello stile del «boulevard» – un po’ come già accadeva in 8 donne e un mistero di cui ritrova peraltro anche Isabelle Huppert. La storia è semplice: una giovane attrice squattrinata nella Parigi degli anni Trenta viene aggredita sessualmente dal produttore che l’aveva convocata per una parte, e che è trovato morto nella sua magione di lusso. Omicidio di cui la ragazza appare subito l’ovvia colpevole. Madeleine Verdier (Nadia Tereszkiewicz, la protagonista del magnifico Forever Young di Valeria Bruni Tedeschi) sogna di diventare una diva, intanto condivide una soffitta sui tetti insieme all’amica del cuore, Pauline (Rebecca Marder) che ha studiato per essere avvocato, ha uno spasimante ricco a cui però il padre ha tagliato i fondi, che le propone di diventare la sua amante mentre lui sposerà una ereditiera scelta dalla famiglia in modo da non essere più punito. Le ragazze stanno per essere sfrattate, vessate dalla portiera acida e impicciona, si consolano andando al cinema. Ci sono tutti i riferimenti di un’immagine/immaginario assai codificato, che appunto Ozon trasforma grazie anche alla complicità degli attori in una scena della modernità. Il teatro diviene il tribunale in cui il «processo Verdier» ha luogo, già perché nel frattempo la ragazza ha confessato il «suo» crimine. Scena, studio cinematografico, spazio pubblico e mediatico di scandalo, permette a Ozon nel movimento di accusa e difesa di disegnare le sue geometrie nel segno di una narrazione del femminile/ femminista. Madeleine si difende col diritto di dire «no» – alla violenza, ai soprusi, ai ricatti di quell’uomo che rappresenta l’ordine fallocentrico del maschile tutto, un diritto che ciascuna deve avere e poter esercitare verso mariti, padri, fidanzati o datori di lavoro che siano, espressione di quell’ordine incarnato dagli accusatori, dall’ispettore di polizia, dal procuratore (Fabrice Luchini). In questo processo che si fa scontro di genere entrano e escono altre figure, ma soprattutto Madeleine afferma le sue doti di attrice e diviene la star che voleva essere, simbolo e idolo di ogni donna di Francia, che l’adora come la temono gli uomini – pure se non tutti. A guidare la messinscena c’è l’amica avvocato, autrice abile di ogni parola in cui dosa e giuste emozioni e regista impeccabile (alter ego dello stesso Ozon?) di una sceneggiatura che punta a ristabilire un ordine borghesissimo dove le due ragazze si affermano senza bisogno di umiliazioni. Di questo gioco del falso e del vero che ammicca, scompone, ricompone, spariglia i suoi «fake» e ne crea altri, cita luoghi e figure del già visto e prova a dargli una patina di novità, fa parte anche l’imprevisto, nel caso la vecchia diva (sublime Huppert) che irrompe in questo nuovo ordine per minacciarlo, e rivendicando lei volto del muto una parola assai pericolosa. Una nuova sfida per la regia che saprà però come affrontarla. Proprio come fa Ozon che se non firma qui la sua opera più intensa riesce a mantenere sempre quella fluidità leggera con cui mettere insieme i propri ingredienti evitando anche laddove il rischio è alto gli eccessi del luogo comune.
Cristina Piccino – ilmanifesto.it
Con Mon crime – La colpevole sono io, François Ozon compie l’ennesima svolta ad U di una carriera quasi programmaticamente scissa tra autorialità ed istituzione sfornando un’opera che sembra quello di un nuovo “papà”, per dirla alla maniera dei primi Cahiers du Cinema, ovvero una fotografia artistica del dibattito e della società attuale francese che ha la pretesa di aggiungere legna culturalmente progressista alle (lente) trasformazioni in atto. Il soggetto del film è difatti un libero adattamento di una commedia parigina del 1934 di Georges Berr e Louis Verneuil che è stato scelto e rimaneggiato per renderlo pienamente in linea col mood femminista del 2023. La squattrinata attrice Madeleine Verdier (Nadia Tereszkiewicz) viene accusata dell’omicidio del potente produttore che l’aveva aggredita sessualmente promettendole un remunerato ruolo nella commedia finanziata. Gli indizi (il furto del portafoglio, la sparizione di un’ingente somma e la sua presenza nella lussuosa villa) giocano contro la ragazza ma la sua amica e coinquilina Pauline (Rebecca Marder), avvocatessa alle prime armi e alla canna del gas quanto lei, la difende in maniera spregiudicata contro le robuste accuse messe su dal giudice istruttore (Fabrice Luchini). Le ragazze infatti sfruttano il successo del caso mediatico che si è venuto a creare – oggi come allora un omicidio commesso da una bella donna solletica le fantasie perverse ed allo stesso tempo le paure del patriarcato – riuscendo a farsi assolvere pur avendo dichiarato falsamente di aver commesso il fatto. La prima riflessione sulla natura arbitraria della Verità e sulla sua spettacolarizzazione è resa, in maniera forse fin troppo evidente, proprio dall’imputata che proclama la natura finzionale della deposizione e di tutte le aule di Giustizia – quanta distanza in questo senso dall’indagine vertiginosa compiuta da Alice Diop nel suo Saint Omer – col rifiuto di indossare un vestito viola durante la sua testimonianza perché, come noto, è il colore da evitare durante le prime teatrali. Mon crime – La colpevole sono io fa dell’arguzia lubitschiana/wilderiana (quest’ultimo esplicitamente citato: le due amiche vanno al cinema a vedere Il seme cattivo) il sostrato che va sia omaggiato che colorato con qualche spruzzata di MeToo attraverso forse l’eccessiva consapevolezza, per il 1935, di cosa avrebbe significato per le donne il suffragio universale. Ecco allora che l’assenza di compassione per il produttore che forse ha avuto un ictus, “aggravato da un colpo di proiettile alla testa” nella battuta più divertente del film, corre sinistramente in maniera parallela alla morte di Jeffrey Epstein, per il quale le cronache hanno accettato con sollievo il suicidio in cella. La scena più esplicativa e meglio riuscita proprio per la natura artefatta del confronto, compiuto su posizioni ciecamente barricadere, è la contrapposizione tra le due arringhe: quella compiuta dalla pubblica accusa titilla le paure del maschio alfa chiedendo una punizione esemplare per evitare che qualunque moglie, amante o sorella possa ribellarsi uccidendo i membri (rigorosamente tutti barbuti) della giuria; quella della difesa fa una chiamata alle armi, fisiche e verbali, a tutte le donne dato che è davvero il giunto di prendersi i diritti negati. Ma è uno dei pochi fuoco d’artificio veri in un film che si contenta di intontire lo spettatore con petardi continui. Così mentre Isabelle Huppert e Fabrice Luchini fanno a gara a chi fa più gazzarra attoriale François Ozon sembra pensare già alla prossima rutilante tappa.
Marco Turco – sentieriselvaggi.it