Pietro è un ragazzino di città, Bruno è l’ultimo bambino di uno sperduto villaggio di montagna. Col passare degli anni, Bruno rimane fedele alle sue montagne, mentre Pietro è quello che va e viene. Il loro incontro li porterà a sperimentare l’amore e la perdita, riconducendo ciascuno alle proprie origini e facendo sì che i loro destini si compiano.
The Eight Mountains
Italia/Francia/Belgio 2022 (147′)
Adattamento del romanzo omonimo di Paolo Cognetti, vincitore del premio Strega nel 2017, Le otto montagne dei registi belgi Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, al timone di una co-produzione franco-belga e italiana, racconta una storia di amicizia in cui la montagna è paesaggio esistenziale e collante umano e identitario tra due diverse personalità agli antipodi come quelle di Bruno e Pietro, che si conoscono fin da bambini – a Grana, Valle d’Aosta, alle pendici del Monte Rosa – e in quei luoghi hanno sperimentato una vicinanza e un’affinità primordiali che continuano a segnarli anche in età adulta, dopo un’adolescenza trascorsa senza mai vedersi che tuttavia ha rafforzato, più che smorzato, ciò che provano l’uno per l’altro. Il film accumula premesse interessanti soprattutto nella prima parte, dove c’è spazio anche per il padre di Pietro, interpretato da Filippo Timi, e il lavoro sulle ambientazioni e gli scenari naturali crea uno stupore a misura di bambino che si accompagna a un senso di avventura e scoperta di sé. Il lavoro di adattamento del romanzo di partenza è in questo senso ben bilanciato, con un utilizzo opportuno della voice over del Pietro di Marinelli nel restituire il passo calmo, limpido e disteso dell’encomiabile scrittura del libro e della sua delicata profondità esistenziale. Dove il film perde invece un po’ di nerbo è alla distanza, dato col passare dei minuti la matrice letteraria dell’operazione prende il sopravvento su quella cinematografica in maniera spossante e l’esigenza di aderire al corpo del racconto produce risultati più schematici e contemplativi, tanto nella valorizzazione tanto degli spazi en plein air, ai quali il formato 4:3 rende comunque giustizia, quanto delle contrapposizioni psicologiche tra i due protagonisti. Ottime in compenso le interpretazioni di Marinelli e Borghi, che tornano a recitare insieme dopo Non essere cattivo (2015), viaggiando in rigorosa sottrazione e donando ai propri personaggi, pur così diversi, e al loro bromance un bel lavoro di sottrazione, nel quale la luce chiaroscurale dei volti ristorati dalle fiamme crepitanti e la scansione cadenzata della parola attraverso i non detti scalfiti dal tempo creano una commossa sospensione emotiva, incastrata tra le stazioni della vita all’insegna della leggerezza e quelle marchiate a fuoco dalla gravità (Borghi, romano, ha dalla sua anche la sfida perfettamente vinta del dialetto nordico). L’ode all’amicizia che ne viene fuori allude alla necessità di mettere i rapporti umani sempre su un piano pratico, in un costante conflitto irrisolto tra intelletto e naturalità, indurito da un inevitabile sottofondo di malinconia. Il titolo fa riferimento una leggenda nepalese secondo la quale al centro del mondo ci sarebbe un monte altissimo, il Sumeru, circondato da otto montagne e otto mari.
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