L’elegante Petra Von Kant ha rinunciato ai compromessi della vita coniugale per seguire la propria idea di emancipazione. Vive con la silente serva Marlene e si innamora di Karin, che però è scostante, falsa e ben lungi dall’esserle totalmente fedele. Farà sprofondare Petra nell’abisso della disperazione.
Die bitteren Tränen der Petra von Kant
Germania Ovest, 1972 (124′)
Uno dei film più importanti di Rainer Werner Fassbinder, nonché uno dei melodrammi più chirurgici e affascinanti della storia del cinema, girato in una decina di giorni con una sapienza e un tatto difficilmente eguagliabili. L’operatore e direttore della fotografia Michael Ballhaus, insieme al regista bavarese, crea un’atmosfera unica, in cui ogni millimetrica variazione prospettica è segnalata da movimenti di macchina vellutati e impercettibili, comprese le carrellate, e da una profondità di campo dosata alla perfezione: la morbidezza è applicata a uno spietato disegno psicologico, nonché a un’ambiguità semantica che rende l’opera un potentissimo saggio sui rapporti tra il filmare per il cinema e il filmare per il palcoscenico (Fassbinder nasce proprio dal teatro), oltre che sulle possibilità incandescenti che le due forme d’arte possono invocare nel momento in cui sono chiamate a dialogare tra di loro in maniera così stretta (ne sono un esempio i quadri della scenografia usati in funzione metaforico-politica). Da un suo stesso testo teatrale, Fassbinder dà vita a un ritratto di donna memorabile, trasformista e sfuggente, in grado di parlare del dolore con una complessità elevatissima e rivelatrice, così intricata eppure così diretta e coinvolgente. I dialoghi sono un flusso interminabile che può spiazzare, o essere un deterrente per qualche spettatore, ma basta soffermarvisi un attimo in più del dovuto per rendersi conto del grande equilibrio, del determinismo e dell’intima verità che racchiude ogni parola. Un film enorme, operistico e barocco anche nella stasi, ostico ed estenuante, ma ricco di commozione, alienazione, spessore filosofico: parlare del lato amaro dell’amore con quest’onestà è difficile, e ancor più proibitivo è inscenare le conseguenze di una relazione infelice attraverso inquadrature e scelte di regia volte a replicare la prigionia del sentimento e della condizione dell’animo umano. Ma Fassbinder, da fuoriclasse assoluto, ci riesce benissimo, facendo letteralmente a pezzi il cuore dello spettatore con immagini difficili da dimenticare.
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C’è un Fassbinder pre Le lacrime amare di Petra Von Kant e uno successivo all’iconico film. Se fino a quel momento la poetica del cineasta tedesco si è mossa tra l’ispirazione godardiana e il formalismo d’avanguardia di Jean-Marie Straub – con cui ha lavorato nei panni di attore in un cortometraggio del 1967 – è solo con Le lacrime amare di Petra Von Kant che la parabola filmica del regista conosce una svolta significativa, dove la matrice melò diviene veicolo prediletto per la concretizzazione del pensiero nichilista con cui Fassbinder mette in scena la decadenza dei valori nella Germania Ovest di quegli anni. Un’intenzione comunicativa già presente ne Il mercante delle quattro stagioni (1972) e che trova definitiva affermazione nel folgorante incontro con Douglas Sirk, punto di non ritorno di una visione cinematografica che farà del melodramma la (sola) cornice ideale attraverso cui “liberare le menti” e indurre gli uomini ad una progressiva e dolorosa comprensione della propria finitezza esistenziale. Le lacrime amare di Petra Von Kant si suddivide in quattro atti, focalizzati su macro-conversazioni che dispiegano non solo la personalità, le idiosincrasie e gli atteggiamenti di Petra Von Kant – una eccentrica e memorabile fashion designer mossa dalla narcisistica volontà di “appropriarsi” degli oggetti del desiderio, attraverso la sottomissione (l’assistente Marlene) o la possessione sentimentale (Edith) – ma che ne delineano il progressivo (e tragico) innamoramento, in una irreversibile e lacerante discesa nell’abisso della solitudine. Nello spazio soffocante delle mura domestiche – da cui il film non esce mai – la parola diviene il simbolo dell’evasione, mezzo unico che consente a Petra di viaggiare temporalmente (i ricordi delle relazioni passate), mostrandone il continuo e irrefrenabile cambiamento interiore. Al primo dialogo tra la protagonista e la Baronessa Sidonie, dove ella si erge (ancora) come dominatrice assoluta del dibattito, corrisponde un segmento che ne tramuta lo statuto. Nel confronto con l’amata Edith, Petra non conduce più la conversazione, ma assume il mero ruolo di uditore. Un cambio di paradigma di cui Fassbinder si serve per associare la progressiva infatuazione della stilista alla perdita di controllo su di sé, anticipando un cambio di prospettiva che la porterà sull’irreparabile sentiero della disperazione. Petra è, di fatto, schiava del suo stesso sentimento: accertata l’impossibilità di possedere la sua amata (nel terzo atto), ogni ferita diviene per lei un dolore insopportabile, un vulnus che certifica il crollo delle certezze di una donna (ormai) fragile, che vede disintegrarsi quella stessa solidità psico-fisica su cui costruisce la sua intera ragione d’essere.
Una condizione drammatica a cui il film dà corpo non solo narrativamente, ma anche attraverso espedienti di natura estetica, come il continuo cambio di vestiario (si passa dai colori sgargianti dei primi atti, al trucco essenziale del tragico finale), e la presenza di Marlene, che funge da cesura narrativa (è lei a chiudere ogni segmento), nonché da figura empatica per lo spettatore, dal momento che le sue azioni – pianto, preoccupazione per Petra e successiva liberazione dal suo giogo – corrispondono alle diverse emozioni che Fassbinder vuole attivare nel suo pubblico. Ed è attraverso il racconto di una lacerante storia di perdizione dall’abito universale, che Le lacrime amare di Petra Von Kant è stato in grado di dialogare con gli spettatori di tutto il mondo, consacrando Fassbinder sull’altare dei grandi autori del cinema.
Daniele D’Orsi – sentieriselvaggi.it