Dalva ha dodici anni, ma non si direbbe: l’abbigliamento e lo stile di vita, infatti, sono quelli di una donna. E lei si sente una donna: è quanto ripete agli assistenti sociali dopo l’arresto del padre, di cui si dichiara innamorata… Sarà grazie a una casa famiglia e all’amicizia di una coetanea che Dalva lentamente imparerà a guardare il mondo da una prospettiva diversa e a riappropriarsi della propria infanzia.
Dalva
Francia/Belgio 2022 (83′)
Dalva (Zelda Samson) porta i suoi capelli color miele raccolti in un chignon; il suo guardaroba è composto da abitini da cocktail neri e pizzi. Il che andrebbe bene, tranne per il fatto che Dalva ha solo 12 anni ed è stata plagiata e sottoposta al lavaggio del cervello dal padre pedofilo. All’inizio del film, in una scena straziante, la polizia e i servizi sociali salvano Dalva dalla casa che condivide con il suo aggressore. Condizionata dal padre a credere di essere la metà di una grande storia d’amore, Dalva si strugge e fatica a entrare in contatto con gli altri bambini nella casa residenziale in cui è collocata. È una visione scomoda, ma questo riuscito debutto in lingua francese della regista Emmanuelle Nicot tratta il suo argomento inquietante con delicatezza, sensibilità e onestà. Nel ruolo centrale, la magnetica Samson è una rivelazione.
Wendy Ide – theguardian.com
Un’esplosione interiore, un’onda d’urto sorda: così possiamo descrivere l’effetto prodotto dal primo lungometraggio della regista francese Emmanuelle Nicot, Dalva – dal nome della sua giovane eroina. Una bambina di 12 anni, bella come un fiore, invecchiata di parecchi anni per capelli, vestiti, trucco, atteggiamenti che non sono la sua età. Sembra una signorina, ordinata e responsabile. Prima di saperne di più, questa visione crea disagio, turbamento, squilibrio. Non ci abituiamo. Dovremo fare i conti con questo disagio causato dall’immagine che lo specchio ci rimanda: il ritratto di una bambina vittima di un padre incestuoso. Che, per un decennio, ha lottato per crescere e trasformare sua figlia in una donna, la “sua” moglie. Il reale è venuto ad alimentare una finzione alla quale il regista ha scelto di aggiungere una scrittura asciutta, come il soggetto. La sequenza inaugurale del film traduce questo abominio in caos mentre ne segna la fine. Gli agenti di polizia irrompono violentemente in casa, arrestano il padre, cercano di sottomettere una Dalva (Zelda Samson) furiosa e urlante, lottando come il diavolo per non essere strappata a quest’uomo. La macchina fotografica portata da Emmanuelle Nicot, l’inquadratura serrata (a volte fino all’astrazione), il rapido taglio esprimono l’urgenza ed evocano un cataclisma commisurato a ciò che è accaduto tra queste mura per anni. Resta impressa questa prima scena, simile a una cicatrice mal chiusa che ci torna in mente ogni volta che Dalva si ribella.
Véronique Cauhapé – lemonde.fr
“Non sono una ragazza, sono una donna”. Eppure Dalva (Zelda Samson) non è davvero una donna, è più una bambola. Una bambola truccata, imbellettata, vestita da suo padre, che l’ha resa la sua piccola donna. Una bambola docile, in cerca di amore. Dalva, il primo lungometraggio di Emmanuelle Nicot, selezionato alla Semaine de la Critique del 72° Festival di Cannes, inizia nel bel mezzo di una crisi. Dalva viene portata via da casa sua, portata via da suo padre. Le viene data un’altra casa, dove dovrà, o meglio potrà, finalmente essere quella ragazza, vivere quell’infanzia che le è stata rubata. La transizione è brutale, ovviamente. Dalva non è altro che sfiducia e resistenza. Senza fiato, interroga gli adulti silenziosi di fronte a lei, chiedendosi da cosa stiano cercando di difenderla. È ancora un’attrice della storia costruita da suo padre, questa storia d’amore proibita. “Ma noi, non è niente del genere”, afferma. Vede la loro separazione come un’ingiustizia. Dovrà essere offerta allo sguardo degli altri, e soprattutto al proprio, perché i condizionamenti a cui è stata sottoposta scompaiano. A volte, l’emancipazione sta nelle piccole cose, come un paio di orecchini che vengono solennemente rimossi. L’apparenza è al centro della vita di Dalva: a casa, è ciò che le permette di fare ciò che non è, una donna. In istituto, è ciò che le permetterà di riconquistare ciò che le è stato tolto, la sua infanzia e la sua adolescenza. I vestiti che suo padre le comprava la definivano. Quelli che acquisterà lei stessa, con l’aiuto della sua educatrice, le permetteranno di liberarsi. Così come il giubbotto prestatole da Samia (Fanta Guirassi, un’ottima attrice debuttante), la ragazza con cui condivide la stanza e che diventerà sua amica, le permetterà di essere vista come qualcosa di diverso da una bambola, e l’aiuterà ad aprire la porta a una nuova vita.
Dalva parte come un dramma, evocando il crimine dell’incesto, ma il film è comunque una traiettoria di ricostruzione e persino di invenzione. Dalva tende alla luce, e infine sfiora la spensieratezza. Emmanuelle Nicot guarda al dopo, alla riparazione. Qui non è tanto la parola che salva, quanto piuttosto la riappropriazione del corpo. Questo corpo è anche quello di Zelda Samson, la giovane attrice che interpreta Dalva (…) Filmata in 4/3, da vicino, spesso di spalle, Zelda Samson presta la sua energia spumeggiante, prima ribelle poi sempre più luminosa, a Dalva, una bambina contrastata a cui finalmente viene concesso il tempo di scoprire l’adolescenza con il proprio ritmo.
Aurore Engelen – cineuropa.org