La Bête

Bertrand Bonello

The Beast
Francia/Canada 2023 (146’)

 VENEZIA – Come nella pittura si può distinguere tra opere che privilegiano una visione ravvicinata e altre che sollecitano una certa distanza dell’osservatore per poter essere maggiormente godute, vorremmo suggerire una analoga separazione anche nel cinema. Vi sono, difatti, film in cui l’emozione scaturisce anzitutto dai singoli momenti, altresì denominati pezzi di bravura, mentre l’insieme scivola in secondo piano (è la ventura – ricercata – di alcuni altissimi risultati di Dario Argento), e altri di cui si ammira, al contrario, la totalità dell’ispirazione che li ha prodotti, quella chiusura del cerchio, per così dire, che trae le fila di un discorso complesso, esibendone l’architettura d’insieme, l’ingegno o, ancora, l’idea a dispetto dei singoli frammenti (qualità rinvenibile in taluni esempi del cinema pasoliniano).

 La divisione, come si vede, è grossolana, molte sono le intersezioni e non ci azzarderemmo a farne un principio critico se non per introdurre questo La Bête, grandioso esito del cinema di Bertrand Bonello, che delle qualità summenzionate si pone studiatamente all’incrocio, generando un’opera ricchissima, qua e là accesa da straordinari pezzi di cinema che si ordinano in una visione d’insieme in cui non è soltanto l’intelligenza del suo autore a trasparire, ma soprattutto un portato emotivo capace di insinuarsi sottopelle e accompagnarci a lungo a visione ultimata.
Assimilabile in ciò a film che si sono trovati a ridefinire le coordinate semantiche con cui leggiamo e insceniamo la contemporaneità – tra essi “Mulholland Dr.” (David Lynch, 2001), Synecdoche, New York (Charlie Kaufman, 2008), Holy Motors (Leos Carax, 2012) – La Bête è un’opera-mondo che piega l’oggi, le sue dilaganti ossessioni, il suo passato e futuro prossimi a strumenti per scandagliare l’umano ed evocare così quel grumo informe di fantasmi, pensieri e pulsioni che vi si agitano come in una melma e da lì, a dispetto di tutto, gli infondono vita.
Nell’immagine che apre il film Gabrielle, il personaggio di Léa Seydoux, si muove inquieto sullo sfondo di un green screen. Assecondando una voce esterna che le suggerisce i gesti, arretra di fronte a nulla, come Tippi Hedren nella casa assediata dai volatili de Gli uccelli (Alfred Hitchcock, 1963) [1]. Afferra un coltello per difendersi dal pericolo che la minaccia, invisibile ai nostri e ai suoi occhi, mentre sul suo urlo di terrore un glitch deforma l’immagine in rigature di pixel e ci trasporta in un altro tempo e un altro spazio. La troveremo, più avanti nel corso del film, a muovere gli stessi gesti, ad afferrare il medesimo coltello, ma stavolta in un contesto reale, un’abitazione, una cucina. La vedremo reagire a una minaccia di cui ora conosciamo con esattezza l’origine e che inquieta parimenti lei e noi. Saremmo tentati di dire che la paura della protagonista sia, questa seconda volta, più viva, ma quell’urlo che in incipit faceva crollare la realtà del set in una manciata di byte è ancora vivo in noi e, di certo, non meno angosciante.
A seguito della rivoluzione digitale, il cinema ci ha indotto a credere che la realtà non sia più la realtà, che un corpo in scena non testimoni alcunché sul mondo, con buona pace di André Bazin e il suo “montaggio proibito” [2]. Che fra i mostri in motion capture di Holy Motors e la tigre fissata su pellicola da Rossellini in India Matri Bhumi (1959) non vi sia differenza di grado – possiamo ancora credere all’una e non all’altra, poggiando la nostra scelta unicamente sulla visione? Bonello fa qui slittare il problema e ci domanda: è, forse, un’emozione meno viva se la reazione che la genera è una reazione a null’altro che ai fantasmi della nostra immaginazione?

In un altro segmento di questo film che si muove liberamente fra i tempi della storia umana, Gabrielle è una sofisticata pianista nella Parigi della Belle Epoque. A un ricevimento incontra l’enigmatico Louis, ottimamente reso dall’interpretazione misurata e sottilmente nervosa di George MacKay, che le confida di averla incontrata anni prima, in occasione di una prima della Madama Butterfly, quando lei gli aveva raccontato un segreto che la angosciava. La donna esita, di fronte all’imbarazzo di lui: non ha memoria della confessione e stenta a credere di aver raccontato a un estraneo qualcosa di tanto intimo. Louis la incalza, finché lei non ammette la confidenza: da molto tempo, ormai, il sentimento di una minaccia incombente la assilla, di un pericolo non meglio definito, pronto però a balzarle addosso in qualsiasi istante, come una bestia in agguato nella giungla. 
L’idea viene da uno splendido racconto di Henry James (La bestia nella giungla, 1903), ma di esso il film non vuole essere un adattamento. Dal testo originale Bonello trae, per i suoi personalissimi scopi, la suggestione di una angoscia senza nome, che vibra ossessiva nella mente della protagonista. Ancora una volta – in un’altra epoca, in altri abiti – Gabrielle reagisce al nulla, a un sentimento che è poco meno che l’intuizione di una catastrofe imminente. Come il suo contraltare in green screen di qualche decennio a venire, questa Gabrielle evoca i fantasmi della propria immaginazione, insegue le tracce di un presentimento e ad esse reagisce per tramutarle in emozione. Vera, a prescindere che la minaccia sia reale o sognata. È, allora, La Bête un film che si interroga sull’umano, su quale sia il suo fondamento, e, in polemica con certo razionalismo spicciolo d’oggidì che si vorrebbe illuminista ed è invece in sospetto di positivismo, ne fa un corpo che ha per centro la sua emotività. Interpretazione rimarcata dal terzo dei segmenti narrativi che si avvicendano, ambientato stavolta in un futuro prossimo, ove le intelligenze artificiali guidano con successo le attività produttive e la disoccupazione è a oltre il 60%. Gabrielle – di nuovo Léa Seydoux, nella terza incarnazione – vorrebbe un lavoro, ma le sue emozioni ne ottundono la capacità di giudizio agli occhi delle macchine. Per accedere a un mestiere di responsabilità dovrà accettare di sottoporsi a un trattamento inteso a purificare il suo DNA dalle incrostazioni passionali accumulatesi nei secoli. Immersa in una vasca dalle fattezze cronenberghiane, Gabrielle è portata a rivivere le sue vite precedenti, in una sorta di Cura Ludovico [3], al fine di liberarla dall’onere del sentimento.
Da questa premessa Bonello trae l’occasione per inscenare una straordinaria partitura di echi e riferimenti incrociati, in cui personaggi, corpi, situazioni, oggetti si ripetono di volta in volta uguali e diversi, attraverso le epoche. In ciò generando un sistema di rime interne che sostiene con forza la continuità narrativa di un film, per il resto fratto in segmenti distinti, quasi racconti nel racconto, ciascuno mosso da più di un sospetto di genere: dal melodramma in costume – forse il più elegante, ricco e vitale che ci sia dato di vedere da anni – al thriller glaciale calato nelle ossessioni della contemporaneità – offrendoci un memorabile ritratto delle angosce incel [4] – fino alla fantascienza distopica.

Non è, poi, un caso che la sezione in costume sia ambientata nel 1910. In quell’anno Arnold Schoenberg dipinge Sguardo rosso, uno dei suoi quadri più dolorosi e allucinati; Carlo Michelstaedter termina di scrivere la sua memorabile dissertazione di laurea La persuasione e la rettorica per poi spararsi alla testa due giorni dopo; Georg Trakl pubblica le prime poesie, perduto tra la depressione e l’abuso di droghe. Seguiamo, allora, un pensiero dello studioso di antropologia Thomas Harrison [5]: “L’anno 1910 è la prefigurazione spirituale di una fatalità indicibilmente tragica, riscontrabile nei toni degli audaci e degli angosciati, dei deviati e dei disperati, nell’arte di una gioventù precocemente invecchiata nell’attesa di una guerra che aveva a lungo sperimentato nello spirito”. È in quest’anno di premonizioni angosciate che Bonello fissa l’inquietudine della sua protagonista, la paura della bestia, l’origine di una dissonanza che negli anni prenderà le forme di pitture contorte, musiche disarmoniche, filosofie a-sistematiche, sintomo di un mondo di ansie, discordie, significati oramai impenetrabili. In una parola: il Novecento.
Siamo, dunque, alle origini della malattia morale che ha investito l’essere umano, quel radicale turbamento per il suo stesso essere-nel-mondo e l’incapacità conseguente di leggerne i segnali, se non in forma di intuizione, premonizione, incantesimo da fattucchiera, quale quella cui si rivolge Gabrielle e che diviene una cartomante da pop-up informatico nel segmento contemporaneo. In questo incessante logorio dell’ermeneutica l’angoscia di Gabrielle è la chiave di volta del suo rapporto col mondo, tanto che il disastro presagito, quasi covassero nell’aria i germi di un trauma imminente, di lì a poco prende corpo e significato nell’esondazione della Senna – e più avanti nel terremoto di Los Angeles – che chiude il racconto in tragedia e consente al regista di ripetere con intelligenza una celeberrima sequenza subacquea dell’amato Inferno (Dario Argento, 1980).

Si potrebbe essere a questo punto tentati di fissare La Bête entro i confini del film a tesi, ma lo si farebbe invano, tante sono le vie d’accesso e d’uscita ch’esso offre allo spettatore. Vorremmo, allora, limitarci a citare il percorso da cui gli altri si dipartono e che tutti comprende, ossia: la storia di un amore irriducibile, che attraversa i secoli e prende i corpi e i volti di Léa Seydoux e George MacKay. Di vita in vita, come soggetti a un destino irrevocabile (che assume il colore di una condanna) i due continueranno a prodursi in una faticosa educazione sentimentale, talvolta mossi da puro affetto, talaltra da un fondo di violenza, ma sempre per il tramite di quella passione che le macchine ambirebbero a eradicare – e la cui tensione esplode infine in un urlo assordante e terribile, memore di quello più celebre che pochi anni fa chiudeva quella che, per chi scrive, si impone come la maggior opera audiovisiva del nostro tempo: Twin Peaks: The Return (David Lynch, 2017).
Che una impalcatura teorica di tal fatta venga infine a ridursi alla messa in scena di un amore è, forse, il maggiore e più poetico risultato di un film di primo acchito inteso a indagare lo stato presente dei costumi e dei consorzi umani. Una ricognizione che Bonello insegue impiegando una sorprendente varietà di soluzioni visive mutuate dalle tecnologie: dai vlog, alle videocamere di sorveglianza, al proliferare dei banner pubblicitari, al deflagrare dei malware e le loro infezioni informatiche, ai glitch che sfasano la narrazione, agli errori di sistema, come a comporre un catalogo dello sguardo contemporaneo.
Giunti al termine della visione, nel vortice di accensioni mentali e suggestioni emotive che ci hanno rapito per oltre due ore, non possiamo fare a meno di domandarci chi sia, infine, la bestia che ci è destinata o, il che è lo stesso, quella a cui siamo destinati noi.

[1] “Melanie Daniel (il personaggio di Tippi Hedren nel film, ndr) l’ho ripresa intenzionalmente a distanza, perché ho voluto mostrare che si ritirava davanti al nulla. Da cosa si ritirava? È spinta sempre più contro il muro. Si sposta indietro, si allontana, ma non sa neanche da cosa si allontana.” Cfr. F. Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Il Saggiatore, Milano, 2014, p. 239.
[2] Scrive, Bazin: “Quando l’essenziale di un avvenimento dipende da una presenza simultanea di due o più fattori dell’azione, allora il montaggio è proibito”. In soldoni, ci si dovrebbe premurare di tagliare il meno possibile in fase di montaggio, così da preservare la continuità dello sguardo che è il motore principe dell’esperienza della realtà. Ma, come detto, il concetto di “realtà” applicato al cinema ha subito enormi mutazioni nel corso dei decenni e il principio invocato da Bazin alla fine degli anni 50 risulta oggi insufficiente a definire un rapporto coerente tra cinema e mondo.
[3] Ci si riferisce, qui, al trattamento inventato dallo scrittore Anthony Burgess e inscenato nel film di Stanley Kubrick Arancia Meccanica (A Clockwork Orange, 1971): in esso, estremizzando il principio della catarsi della tragedia greca, si pone un individuo nella condizione di subire passivamente degli stimoli – per lo più visivi – al fine di indurgli il disgusto verso certi comportamenti o propensioni. Nel film di Bonello la propensione che si vorrebbe eradicare è quella di cedere agli impulsi emotivi e il mezzo è costringere la protagonista a rivivere momenti delle sue vite passate in cui arrendendosi al sentimento ha finito col distruggere se stessa.
[4] Si intende, col termine INCEL (“involuntary celibate”, celibe involontario), una sottocultura originata sui forum online, i cui membri sono prevalentemente giovani uomini eterosessuali che, non riuscendo a trovare un partner nonostante lo desiderino, incolpano il genere femminile di rifiutare aprioristicamente chiunque non corrisponda ai canoni estetici e di socialità imperanti. Le espressioni di questi gruppi tendono a essere piuttosto estreme e non di rado si manifestano in forme di terrorismo o violenza personale, come accuratamente mostrato nel film.
[5] Il riferimento alle teorie di Thomas Harrison è emerso durante una chiacchierata con Giuseppe Gangi di Ondacinema, che si desidera qui ringraziare e a cui va la paternità dell’intuizione.

Matteo Pernini – MCmagazine 86

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