Nove episodi di vita quotidiana a Teheran, ognuno definito dal nome del protagonista. Persone comuni di vari ceti sociali mentre si muovono tra vincoli culturali, religiosi e istituzionali, imposti loro da diverse autorità. Un puzzle di scene commoventi, umoristiche e coinvolgenti, che catturano lo spirito e la determinazione delle persone in mezzo alle avversità. Un ritratto sfumato di una società complessa, forse il film politico più significativo di quest’ultimo anno.
Ayeh haye zamini/Terrestrial Verses
Iran/Lussemburgo 2023 (77′)
Teheran racchiude vite e anime, collega diverse storie. Per questo i registi Ali Asgari e Alireza Khatami scelgono di aprire il loro film con una lunga inquadratura fissa della città, dall’alto. La prospettiva non appartiene a nessun personaggio, è quasi divina, esterna, eppure permette di entrare dentro il racconto che si sta per svelare al pubblico. È sufficiente ascoltare: i rumori, i clacson, le voci (anche disperate) dei minuscoli umani laggiù. Settantasette minuti, suddivisi in brevi cortometraggi, Kafka a Teheran riproduce per ogni sezione lo stesso schema: camera fissa senza tagli interni per circa dieci minuti, un personaggio frontale e un personaggio fuori campo, che non si vedrà mai. Come affermato dai registi durante la presentazione del film a Cannes 2023 (nella sezione Un certain regard), i dialoghi tra i due personaggi di ogni sequenza ricalcano la struttura di alcune poesie umoristiche iraniane, in cui il botta e risposta è sempre su temi sociali. Anche per questo il titolo internazionale dell’opera è Terrestrial Verses. Attraverso quindi la chiave dell’umorismo i due registi aprono diverse finestre sulla vita quotidiana a Teheran, mostrando la pervasività e il controllo del regime, anche nelle situazioni più assurde.
C’è chi non può chiamare il proprio figlio David, per non promuovere la cultura occidentale, chi non può tingersi i capelli, chi vede portar via il proprio cagnolino (vietato dalla polizia morale), chi durante un colloquio di lavoro è costretto a mimare l’abluzione prima della preghiera. Lo sguardo di Asgari e Khatami prova sempre a mostrarsi ottimista e a celebrare la resistenza, soprattutto a causa del contesto in cui è nato, l’anno di proteste contro il regime e la polizia morale, iniziato con la morte di Mahsa Amini, il 16 settembre 2022. Alcuni momenti, tuttavia, feriscono anche con il sorriso. Come la storia di Selena – secondo segmento del film – la bambina dai lunghi capelli rossi che vorrebbe solo continuare a ballare davanti allo specchio con la sua felpa rosa. E che, ballando, calpesta a terra il velo che è obbligata a indossare a scuola. Asgari e Khatami, tuttavia, voglio lasciare un messaggio di speranza, un finale radicale che permetta di ricostruire quella stessa Teheran della sequenza iniziale, non prima di averla rasa al suolo, insieme a tutti i suoi simboli, ai suoi “padri” e ai suoi “padroni”. Kafka a Teheran è un film politico, forse il più significativo di quest’ultimo anno.
Valeria Verbaro – framedmagazine.it
…Ali Asgari e Alireza Khatami sono alla loro prima prova insieme e probabilmente si sono divisi gli episodi da girare in questo puzzle i cui pezzi, una volta composti, offrono un quadro forse più agghiacciante di quanto ci si potesse attendere. Perché siamo tutti purtroppo a conoscenza di quanto recentemente accaduto in Iran con atti di repressione violenta ma è la capillare presenza in ogni risvolto della vita quotidiana che offre in misura ancora più forte il senso di uno stato teocratico che si infiltra nel vissuto dei propri cittadini. Si sorride anche in questo film ma lo si fa con grande amarezza (…) I due registi hanno fatto un lavoro di resistenza civile che deve essere costato non poca fatica, espedienti e rischi e che non avrà spazio di visione in Iran. Perché questo è un cinema di denuncia sociale che, con grande semplicità di mezzi e con un approccio estremamente diretto alla realtà, sa comunicare con efficacia il proprio grido di ribellione molto più di altre opere formalmente elaborate ma distanti anni luce da una fruizione non intellettualisticamente di nicchia.
Giancarlo Zappoli – mymovies.it
“Più grande è il budget più piccole sono le idee, più piccolo è il budget più grandi sono le idee”. Ci perdonerà Francis Ford Coppola per lo scippo, ma l’impressione è che la coppia iraniana Asgari, Khatami lo abbia preso alla lettera. Registi e sceneggiatori che, per necessità, per disperazione ma anche per convinzione hanno cesellato un film clandestino, dalla produzione lampo, dalla troupe scarnificata, già costato loro la libertà. Nel pericolo di ingerenze, nella ristrettezza di mezzi, i due autori nascondono sotto il velo del sarcasmo e dell’assurdo kafkiano, un J’accuse arguto e lucidissimo conto il regime iraniano. Cinema come finestra su una realtà disperata, dunque, in bilico tra il dramma e la farsa, tra il paradosso e il grottesco.
Dodici storie di repressione unite da una scrittura tutta dialogica, sempre vibrante nei ritmi, e filmate da una (sola) camera fissa per dodici long takes. A volte sono piani americani, altre primi piani. Comunque si ripropone un duello tra campi e controcampi mai mostrati, sempre allusi e uditi. Una gabbia al visibile e all’agibile che allegorizza, si capisce, quella che regna fuoricampo, fuori sala: teocratica, onnipotente o implacabile proprio perché invisibile. A segnalarcela è la voce o-scena (non solo etimologicamente) di burocrati, passacarte, censori della libertà. Sono anonimi esecutori. Depensanti che applicano la legge e attuano l’assurdo. Inutile sottolineare, però, che le vittime che guardano in camera, incalzando loro, vedono noi. La satira, così, scivola nell’apocalisse (finale) metaforica, diciamo anche allegorica sì, ma civile ora nella sua tremenda attualità. Perché già il titolo italiano – Terrestrial verses in effetti era quello internazionale, omaggio alla poetessa persiana Farrokhazd – preludia all’assurdo, all’illogico burocratico contro cui rimbalzano sdegno e desolazione dei protagonisti. La semplicità di stile, la naturalezza di recitazione, la precarietà di scenografia, l’inquadrata ripetitività delle struttura ci consegnano questa gamma di emozioni con brutalità, accuratezza e immediatezza: è nella vocazione popolare, nell’inquietante trasparenza delle situazioni, nell’urgenza di denuncia, nell’iterazione sgomenta dell’identico, nella stratificazione di rimandi e di accuse che questa stridula satira a episodi brilla, inquieta, indigna.
E dura. Dura perché, per esempio, costringe noi a tormentarci su come chiamare nostro figlio se ci è vietato il nome scelto, o a come lavorare senza diventare schiave sessuali di un padrone. E dura perché, dopo gli appalusi a Cannes Un Certain Reguard, ad Ali Asgari, secondo Variety, in patria è stato ritirato il passaporto, e gli è stato anche proibito di fare altri film…
Davide Maria Zazzini – cinematografo.it