Un’indagine approfondita sulla natura della violenza maschile nei confronti delle donne, condotta da Marina Valcarenghi, psicoterapeuta e psicoanalista. Partendo dal suo lavoro sulle dinamiche relazionali che scatenano reati di natura sessuale, il documentario porta sullo schermo un’ esperienza di oltre quarant’anni di ricerca clinica attraverso un confronto con gli studenti dell’Università degli Studi di Milano. Una rara opportunità di intelligenza ed esercizio critico.
Italia 2023 (60′)
Talvolta basta davvero poco per fare un film di grande impatto. Nel caso del Popolo delle donne un tavolo, una sedia e una donna che dice cose importanti con competenza e grande personalità. La persona in questione si chiama Marina Valcarenghi, psicoterapeuta e psicoanalista, docente di Psicologia clinica e di Psicologia degli aggregati sociali, presidente della Scuola di specialità in Psicoterapia LI.S.T.A. di Milano e dell’associazione VIOLA per lo studio e la psicoterapia della violenza, con una lunga serie di pubblicazioni dedicate allo studio dei comportamenti associati alle violenze sulle donne. Un argomento di tragica attualità e di cui si parla spesso molto male. Yuri Ancarani, artista e regista che proprio a Venezia nel 2022 ha portato il suo primo lungometraggio, l’assai bello Atlantide, torna un anno dopo, alle Giornate degli Autori, con questo film didattico di un’ora, una vera e propria lezione della dottoressa Valcarenghi al pubblico in cui spiega con precisione molte delle cose fondamentali da conoscere sull’argomento. Lo fa immersa in un luogo bellissimo, che contrasta e ammorbidisce la violenza di cui sta parlando, e il suo flusso viene interrotto per spiare un collettivo di giovani universitari impegnati a preparare uno striscione che scopriremo solo alla fine del film. Ancarani sentiva che era arrivato il momento di affrontare anche questo tema all’interno del suo percorso di videoartista, una carriera ultraventennale che lo ha portato in giro per il mondo alla ricerca di immagini da filmare, elaborare e poi mostrare.
Alessandro De Simone – rollingstone.it
Il film evidenzia per la prima volta il rapporto fra la crescente affermazione sociale delle donne e l’aumento della violenza sessuale maschile. Quanto più il mondo delle donne, ancora inevitabilmente insicuro, viene tuttavia alla ribalta, tanto più si acuisce la violenza insofferente di una parte del mondo maschile spiega nel documentario la Valcarenghi, 83 anni, attentamente ripresa da Ancarani che ha avuto l’idea del film, in una una lectio magistralis nel cortile della Legnaia dell’Università degli Studi di Milano mentre dei giovani stanno preparando una manifestazione contro la violenza sulle donne. Le sue parole ripercorrono stralci di testimonianze di uomini violenti, raccolte nei tribunali, nel corso di colloqui in carcere o durante le sedute presso il suo studio, alcune anche di minori davvero terribili. «Sono in aumento nelle giovani generazioni maschili gli uomini che violentano le donne” – racconta la psicoterapeuta -. “Usate violenza sessuale di gruppo solo sotto l’effetto dello sballo?” ho domandato a un ragazzo. “Non lo so, è bello sapere che qualche volta si può fare di tutto”. Soprattutto con le donne? Nel nostro Paese più che negli altri paesi sta sfogando uno strano tsunami che consiste in comportamenti violenti degli uomini verso le donne, più che nel passato. Proprio perché c’è stata una liberazione velocissima del mondo femminile, si è cominciata ad aprire una voragine nel patriarcato e gli uomini non sopportano di essere esautorati dalle loro tradizioni di oppressione femminile. Per questo aumenta l’omicidio, il maltrattamento e lo stupro. A cosa serve? A niente, ma dà la sensazione per un attimo di comandare, di recuperare un’identità che si considera perduta. Valcarenghi, invitando specie le giovani donne a reagire, auspica che un giorno “il popolo” femminile possa sentirsi parte di un’unica grande comunità, accomunata da istanze condivise con gli uomini e da battaglie da intraprendere in una dimensione collettiva.
Angela Calvini – avvenire.it
Milano, Università Statale degli Studi. Nel giardino del cortile della Legnaia, seduta dietro una cattedra collocata sul prato, che si fa teatro pubblico, la psicanalista Marina Valcarenghi offre una dissertazione sulle cause della violenza sulle donne e le possibilità di contrastarla. Laureata in giurisprudenza, giornalista, fondatrice di VIOLA, associazione per lo studio e la psicoterapia della violenza e di una scuola psicoterapeutica, la dottoressa è stata la prima psichiatra italiana a lavorare in carcere con detenuti in isolamento per omicidio, stupro e pedofilia, documentati nei saggi Ho paura di me – Il comportamento sessuale violento e L’insicurezza. La paura di vivere nel nostro tempo. L’esposizione di Marina Valcarenghi non è quella di una lectio magistralis, dai toni e dai linguaggi accademici; piuttosto, un concentrato del sapere raccolto nella sua attività dagli anni Settanta a oggi. Un ragionare pragmatico e partecipe, un passaggio di testimone alle nuove generazioni, che arriva da una militante che ha molto indagato la relazione tra disagio psichico e tessuto sociale. Si va alle radici dell’odio per affrontarlo con gli strumenti più adatti, per produrre antidoti al facile e inutile vittimismo e alla negazione della violenza come istinto umano. A supporto delle sue idee, infatti, la specialista riporta dichiarazioni annotate nella sua attività di terapia coi detenuti in isolamento, ma anche in analisi, in modalità privata. La premessa logica è la constatazione dello squilibrio macroscopico tra il tempo storico in cui le donne sono state oppresse e il breve arco temporale (trent’anni, dal 1946 al 1976 circa) in cui leggi e referendum hanno dato l’avvio alla loro emancipazione. Un “cambiamento epocale” – la fine della patria potestà, l’affermazione economica delle donne, soprattutto – che inevitabilmente avrebbe generato una reazione violenta. Che non è stata prevista (…)
I piani sulle parole misurate e concrete di Valcarenghi si alternano a immagini di un gruppo di studenti che prepara alcuni cartelli e uno striscione, protagonisti della scena finale del film: un corpo a sé stante, girato fuori dall’università. Nessun elemento scenico, se non i pochi collocati sulla scrivania, distoglie l’attenzione dal ragionamento. Sono la voce, le pause, lo sguardo stesso della psicanalista a strutturare e dare incisività e sostanza ai concetti. Come “la misoginia è una confessione e nello stesso tempo è un’oppressione”. Oppure: “nessuna minoranza né maggioranza mai nella storia è stata oppressa come sono state oppresse le donne, in quasi tutto il mondo e in qualche parte ancora adesso. Mai. Quando dico che le donne sono un popolo, voglio dire questo”. Pamphlet didattico, profondamente rivoluzionario, che richiama tutte e tutti a uno sforzo maggiore di comprensione e partecipazione, Il popolo delle donne è una versione aggiornata del manifesto nella rivista di lotta o del volantino novecentesco. Il suo approdo naturale è nella sala cinematografica, nei cineforum, tra le associazioni, nelle scuole e, per volontà della sua autorevole messaggera, anche nei tribunali, auspicabilmente a beneficio di chi è incaricato per legge di comprendere a fondo e decidere non solo su entità della pena, ma su rapporti di forza, consapevolezze, modalità di riabilitazione. Presentato in anteprima come Proiezione speciale alle Giornate degli Autori di Venezia 80, Il popolo delle donne è prodotto da Dugong in collaborazione con PAC e ACACIA (Associazione Amici Arte Contemporanea Italiana) ed è distribuito da Barz and Hippo, cioè Paola Corti e Monica Naldi del Cinema Beltrade di Milano. Perderselo significherebbe privarsi di una rara opportunità di intelligenza, esercizio critico.
Raffaella Giancristofaro – mymovies.it