Il cielo sopra Berlino

Wim Wenders

Nella Berlino ancora divisa dal muro, due angeli vigilano, invisibili, sul corso delle esistenze umane. Uno dei due, Damiel, per amore sceglierà di rinunciare alla sua immortalità e farsi uomo. Film-simbolo, cruciale in tutto il decennio!

Der Himmel über Berlin
RFT-Francia 1987 (132′)

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  È il film-simbolo, cruciale in tutto il decennio, che ha consacrato Wenders, reduce da una lunga parentesi americana, come uno dei più importanti cineasti europei. Prima di ogni altra cosa, è un inno d’amore a una città ancora segnata da una profonda anomalia, in cui il Muro costituisce un limite terrestre invalicabile, ma lo spazio aperto del cielo sopra quel Muro rimanda a un ideale assoluto di libertà. In questo spazio fluttuano gli angeli di Wenders, fuori dal tempo ma dentro la Storia. Due i protagonisti, come due le città separate dal muro, divisi da destini contrapposti. Damiel, un grande Bruno Ganz, dopo aver visto in un circo la bella e sola trapezista Marion (Solveig Dommartin) ed essersene innamorato, accetta di perdere la sua corazza di immortalità pur di vivere l’amore, le sensazioni e le esperienze di un uomo comune. Cassiel (Otto Sander) resta fedele alla sua natura e al suo compito, custode delle coscienze della città sulla Colonna della Vittoria. È anche un’opera dove la poesia è ovunque, nei movimenti di macchina come nelle interpretazioni, nelle scelte cromatiche come in quelle musicali. Ma è un film di poesia soprattutto per merito (o a causa) dell’imponente substrato letterario nella sceneggiatura di Peter Handke, estremamente densa e suggestiva, sebbene in qualche momento troppo verbosa e oscura. Eccellente ogni contributo tecnico, con una doverosa menzione per la splendida fotografia curata dal veterano Henry Alekan. Indimenticabile Peter Falk, nei panni di un angelo caduto di consumata esperienza.

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Era il 17 maggio 1987 quando Il cielo sopra Berlino, undicesimo lungometraggio di Wim Wenders, fu presentato al quarantesimo Festival di Cannes, dove vinse il premio per la miglior regia, suscitando un grande consenso tra critica e pubblico, che lo avrebbe avviato a divenire un vero e proprio cult del cinema tedesco e mondiale. Il regista, rientrato in patria dopo aver girato negli Usa Hammett nel 1982 e Paris, Texas nel 1984, volle trasporre in questa pellicola fortemente poetica e suggestiva il suo riavvicinamento alla lingua e alla cultura madre, rendendo la stessa capitale una protagonista indiscussa della narrazione. I suoi monumenti e luoghi simbolici diventano, infatti, le quinte perfette, ossessivamente riproposte allo spettatore, della malinconica vicenda dell’angelo Damiel – ispirato, a detta del regista, dagli angeli dalle «bocche stanche / e chiare anime senz’orlo» di Rainer Maria Rilke – che decide di cadere dalla sua grigia immortalità nel mondo degli uomini, soverchiato dai sensi e dalle passioni. Protagonista è, dunque, anche il Muro, prossimo ormai all’abbattimento ma ancora inaccessibile all’occhio della telecamera e di cui, pertanto, il regista dovette far ricostruire altrove una porzione di 150 metri da utilizzare per le riprese, così come la Siegessäule, la Colonna della Vittoria sovrastata dalla dorata figura alata, luminosa e tangibile, che fa da comprimaria agli evanescenti angeli in soprabito scuro che osservano dall’alto la vita di cui non possono esser parte – e da qui deriva anche la scelta di contrapporre il loro sguardo monocromatico a quello a colori che incarna l’intensa transitorietà dell’esperienza umana, tanto agognata da chi è condannato a una vita eterna ma priva di sensazioni, un po’ come l’androide Andrew protagonista del racconto L’uomo bicentenario scritto nel 1976 da Isaac Asimov. Wenders decide di riprendere la vicenda nel sequel del 1993 – in cui compare addirittura Gorbačëv – Così lontano così vicino, dove l’azione si fa più pressante e s’intravedono anche gli eccessi a cui proprio i sensi possono condurre, mentre nel 1998 il regista statunitense Brian Silberling si cimenta in un remake, City of Angels, ambientato proprio a Los Angeles; ma l’esperimento di ricondurre al linguaggio hollywoodiano i tempi distesi di Wenders non rende giustizia all’opera originale e alla profondità delle domande poste dai suoi personaggi, tra le quali risuona quella della leggiadra trapezista Marion: «Il tempo guarirà tutto. Ma che succede se il tempo stesso è una malattia?».

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Nel cielo grigio sopra Berlino, nelle sue vie e nei suoi edifici si aggirano innumerevoli angeli non visibili agli adulti ma individuati dai bambini. Essi possono sentire i pensieri di ognuno e cercare, mettendosi loro accanto, di lenire i dolori dei più sofferenti. Due di loro, Damiel e Cassiel, si ritrovano periodicamente per raccontarsi le reciproche esperienze. Damiel è quello a cui pesa maggiormente la propria condizione: vorrebbe poter diventare uomo per percepire il senso della materia e della quotidianità. Grazie a una trapezista e a un attore riuscirà a prendere una decisione fondamentale. Wenders (…) va alla ricerca delle proprie radici culturali e sceglie, lui originario di Düsseldorf e ammiratore di Colonia, quella Berlino che lo ha visto, diplomando alla scuola di cinema di Monaco, esordire nel lungometraggio. La città, con la sua tormentata storia, con i suoi monumenti, è la coprotagonista di uno dei migliori film in assoluto dell’intera filmografia wendersiana. Ispirato da Rilke e con l’assolutamente importante collaborazione di Peter Handke, Wenders ci propone una riflessione sull’esistere che si fa cinema, pensiero e azione. Cinema innanzitutto e fin dalle primissime immagini con l’angelo Bruno Ganz che viene visto dai bambini in un affascinante bianco e nero. Quell’angelo è un ‘collega’ degli ‘angeli’ registi che Wim sente vegliare su di lui: Truffaut, Ozu e Tarkovskij a cui dedica il film alla fine. Ma è anche colui che sente il bisogno di superare la fase di ‘ascolto’ della vita per immergervisi completamente. Non basta osservare la realtà e condividerne, anche se sempre con distacco, i sogni e le disillusioni. Bisogna entrarvi con il peso della passione e del dolore. Non a caso ad aprire questa dimensione a Damiel sono due persone che hanno fatto della ‘rappresentazione’ la loro vita: la trapezista Marion e l’attore Peter Falk. Grazie a loro il bianco e nero può diventare colore e l’angelo, che osservava dall’alto del campanile simbolo della Berlino devastata dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, può ora, come dicono gli inglesi, “to fall in love” “cadere in amore”. Perdendo l’eternità ma acquisendo la fondamentale dimensione umana.

Giancarlo Zappoli – mymovies.it

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