Francia/USA 2023 (114’)
VENEZIA – Al culmine di una carriera ondivaga, piena di indiscussi successi di pubblico se non di critica (basti pensare a Nikita, Subway, Leon, Il quinto elemento) ma anche di lunghi periodi di assenza, il regista e produttore franco-inglese Luc Besson porta a Venezia Dogman, un opera di smagliante bellezza, a tratti commovente fino alle lacrime secondo l’opinione di molti critici. Uno di quei film che ti riconciliano col cinema e anche un po’ con la vita, intesa come la capacità di resistere e di trasformarsi che ne è l’essenza più profonda. Buona parte del merito va attribuito alla incredibile performance dell’attore scozzese Caleb Landry Jones, praticamente sconosciuto in Italia ma già premiato come migliore attore a Cannes nel 2021 (Nitram). Altrettanto importanti, veri deuteragonisti della storia, sono i cani, che il protagonista Douglas, bambino abusato ama sopra ogni cosa e che saranno i suoi compagni e protettori. Il film si apre appunto con una citazione da Alphonse Lamartine “Ovunque ci sia un infelice, Dio (God) manda un cane (dog in inglese)”.
Nella scena iniziale vediamo la polizia fermare un camioncino; alla guida un uomo tutto insanguinato travestito da Marylin Monroe, e all’apertura del portellone posteriore ecco uscirne una banda di cani di tutte le razze e taglie che si danno alla fuga. Portato in carcere, e non sapendo dove metterlo, se sia uomo o donna, viene chiamata nel cuore della notte la psicologa Evelyn (l’ottima Jojo T. Dibbs), madre single stalkizzata dal marito, che dovrà cercare di capire chi si trova di fronte. Tra i due si stabilisce una sorta di empatia, e Douglas (è lui il travestito) comincia a raccontare. Così il film si articola in una serie di flashback: all’inizio lo vediamo ragazzino cresciuto in una famiglia disfunzionale, con una madre assente e un padre violento al limite del sadismo che di mestiere fa l’allevatore di cani da combattimento tormentandoli in ogni modo. Quando scopre che il figlio invece porta di nascosto del cibo agli animali (arrivando addirittura ad ammettere di amare loro più della sua famiglia) non esita a chiuderlo nella gabbia e a tenercelo per anni (Besson dice di essersi ispirato ad una storia vera, ma francamente facciamo fatica a credergli) finché al culmine di una ennesima lite gli spara una fucilata troncandogli un dito e lasciandolo semi paralizzato su una sedia a rotelle. Polizia, arresto, condanna del padre e del fratello. Per Douglas invece inizia una adolescenza sofferta,sballottato tra collegi e casa famiglia. Unico raggio di sole nella sua vita solitaria (dirà: “non riuscivo a fare amicizia cogli altri, mi trovavo meglio coi cani, che hanno tutte le qualità che mancano all’uomo”) l’amore impossibile per l’istitutrice Salma, che lui, ragazzino disabile, seguirà per tutta l’incipiente carriera teatrale e la quale ha il merito di trasmettergli l’amore per il teatro e soprattutto per Shakespeare.
Una passione che ispirerà da allora in poi la sua vita: l’arte, il teatro (il travestimento, la trasformazione?) come via d’uscita dal dolore. Ad ogni modo, diventato adulto, Douglas fa per un po’ il custode di un asilo per cani e quando questo viene abbattuto per far posto ad una speculazione edilizia, lui se ne va portandosi dietro i suoi ”bambini”. Ridottosi a vivere in una casa abbandonata, si mette in cerca di un lavoro qualsiasi, ed ecco che, dopo una serie interminabile di rifiuti, una sera entra in un nightclub dove si esibiscono delle drag-queen. È questo come un film nel film, e certo la parte migliore di Dogman. Con lui (“chi sa interpretare Shakespeare può recitare qualunque cosa” aveva detto l’amata Selma) che si esibisce nell’imitazione di icone pop come Lili Marleen o Edith Piaf tra gli applausi scroscianti del pubblico. D’altra parte come abbiamo già visto, il “mascheramento” (oltre all’amore dato e ricevuto dai suoi cani) era l’unica via di fuga e di salvezza per lui.
Alla fine, quando Evelyn, capito chi aveva davanti e commossa si congeda, Douglas le dice “Io e lei abbiamo qualcosa in comune: the pain,il dolore”. Il film avrebbe potuto terminare qui, e invece l’esuberante Besson aggiunge una terza parte francamente sopra le righe, con Douglas che prima addestra i cani a rubare nelle case dei ricchi, autoproclamandosi ‘ridistributore di ricchezza ‘ e poi fa una strage dei delinquenti messicani a cui aveva pestato i piedi per difendere una vicina. Per arrivare alla liberazione dalla prigione ad opera dei suoi cani (e qui è obiettivamente difficile non pensare a La carica dei 101!), fino ad un finale mistico, con Douglas che si abbandona a terra di fronte alla chiesa nella posizione della croce, mormorando “Io sono qui, Dio ho terminato la mia opera”. Eccesso? Trash? Certo, ma se fosse solo poesia? È presto per dire se Dogman diventerà un cult come Leon o Nikita, ma certo con questo film Besson ribadisce di avere un posto nella storia del cinema. Quelli troppo tristi e rigorosi, forse vi diranno di no, ma non dategli retta, abbiamo ragione noi: quelli per cui il cinema è ridere o piangere assieme in una sala buia, da cui uscire rinfrancati e purificati (cfr. Aristotele) con l’unico rimpianto che non sia durato di più.
Giovanni Martini – MCmagazine 86