USA 2023 (80’)
VENEZIA – Adieu au langage, addio al linguaggio. Lo dichiarava nel 2014 Jean-Luc Godard in quell’omonimo e malinconico canto alla funzione comunicativa delle lingue che sconcertò i più ed acquisì in breve nomea di opera irricevibile – in realtà un ultimo, soverchiante capolavoro del maestro franco-svizzero. E quel medesimo addio sembra oggi volerlo riproporre all’attenzione della platea veneziana Harmony Korine, suo figlio putativo nel decostruire l’esperienza cinematografica odierna col piglio sedizioso e impertinente di un ribelle del Maggio francese.
Sin dal titolo in odore di sciarada, AGGRO DR1FT si pone come esperienza liminale, tutta intesa a valicare i consueti paradigmi della visione per aprirsi a un radicale ripensamento del rapporto film-spettatore. Girata interamente con l’impiego di termocamere, che decompongono la visione sino a un mosaico lisergico di tessere cangianti, l’opera numero otto di Korine racconta le gesta del più abile assassino a pagamento sulla terra. Lo vediamo intento a discorrere con i figli, a condividere attimi di intimità con la moglie e poi direttamente sul campo, impegnato a freddare l’ennesimo bersaglio, mentre il tessuto del passamontagna che gli copre il volto sembra pulsare – per effetto del fiato – all’altezza della bocca, disegnando un orrido ghigno deforme. È solo una delle molteplici invenzioni visive che concorrono ad alterare la nostra percezione del fotogramma digitale, che pare sfarsi e ricomporsi di continuo innanzi ai nostri occhi stupefatti, giocando – parola chiave, più volte impiegata dal regista in conferenza stampa – con inserti grafici in 3D, circuiti che appaiono sulla pelle dei protagonisti come marchiature o sinistri perimetri venosi, distorsioni operate dagli algoritmi di una intelligenza artificiale. Quando poi il protagonista strangola una vittima a bordo piscina, vediamo d’un tratto ergersi alle sue spalle un corpo – anzi un’anima, una emanazione termo-cromatica – dalle fattezze demoniache. Un diavolo custode? O il maligno incistato nelle pieghe della coscienza, insomma: la nemesi da combattere?
Pur assolutamente lineare nello svolgimento, il film non manca di indurre nello spettatore ogni sorta di dubbio. È reale ciò che vediamo? O è solo il parto della mente esulcerata del protagonista? La domanda, invero, si direbbe mal posta. La stessa nozione di realtà sembra venir meno nel perimetro digitalizzato di AGGRO DR1FT. Quegli oggetti, quei corpi, che di norma – ossia nel cinema normale, “normato” – sono il correlativo di un mondo a sé stante e ci danno garanzia di una qualche supposta realtà dietro quel che vediamo, altro non sono qui che un grumo di pixel trattati, rimasterizzati, re-mixati come in un brano pop. Distinguere tra immagini catturate dal vero e poi modificate e immagini generate artificialmente è tanto arduo da risultare controproducente rispetto al godimento dell’opera.
Già, perché a dispetto dei molti che hanno preferito abbandonare le poltroncine durante la proiezione serale in sala Darsena, la forza di AGGRO DR1FT è nella temperatura emotiva con cui si lascia guardare, ma sarebbe meglio dire: con cui si lascia vivere, dacché si tratta in tutto e per tutto di un’opera sensoriale, che mira a eccitare non solo il nostro sguardo, ma i sensi tutti. Nello splendido monologare del protagonista, che assume le forme di una ballata allucinata, percepiamo il battito dell’ossessione come un basso continuo. Siamo nella sua mente, condividiamo le manie, i desideri e le fantasie di questa sorta di Allen Ginsberg dell’immaginario gangsta rap (è un poeta, l’assassino, come lo era Matthiew McConaughey nel precedente The Beach Bum (2019), mentre sul fondo le distorsioni elettroniche di AraabMuzik ci cullano come una nenia ipnotica (in un uso godardiano delle piste sonore sovrapposte che si riallaccia direttamente al lavoro sul riuscitissimo Spring Breakers (2012).
Di fronte a un’opera così radicalmente teorica, il rischio che la tecnica si mangiasse l’intero progetto – cioè che tutto si risolvesse in una esibizione un po’ frivola di competenze grafiche e informatiche – era molto alto. Korine riesce tuttavia a eludere questo sospetto grazie alla capacità del tessuto visivo di farsi accurato contraltare delle istanze del racconto. Un racconto, oltretutto, che si sviluppa nel contesto del vissuto cinematografico del regista, rilanciando temi, oggetti, modi e forme che di film in film abbiamo visto costruire quello che è a tutti gli effetti un mondo, il mondo di Harmony Korine. In esso prende corpo l’assalto ai miti e agli stereotipi di certo immaginario americano, con il suo battere ossessivo sulle armi, i soldi, il successo, la libertà. Ed è ancora una volta una figura della cultura hip hop – nel precedente The Beach Bum Snoop Dogg, qui il rapper Travis Scott – a denunciare l’interesse di Korine per la rappresentazione del mito americano oggi.
Vogliamo, allora, ricordare le parole sussurrate da Enrico Ghezzi dopo la proiezione dello straordinario Izo (2004) del genio Miike Takashi in una proiezione veneziana che falcidiò il pubblico assai più del film di Korine: “Dopo il cinema c’è Izo”. Si sarebbe tentati di rilanciare, parafrasando le parole del maestro: dopo Izo c’è AGGRO DR1FT, ma sarebbe un gesto vano. A dispetto del suo porsi come una operazione “post-cinema”, l’ottavo lungometraggio di Harmony Korine è anzitutto il precipitato dell’intelligenza appassionata del suo autore, della curiosità con cui ha sempre saputo guardare a tutte le forme del cinema, comprese quelle solo possibili e prima d’ora irrealizzate. Potremmo perfino cedere alla tentazione di definirlo un gioco, data, però, la premessa che l’arte tutta lo sia.
Con curiosità sopraffina e piglio adolescenziale, Korine prova nuovamente a rompere il giocattolo-cinema, nel tentativo di trovare nuove strade per l’immagine del XXI secolo. In ciò rievocando nella nostra mente lo straordinario botta e risposta fra Jean-Paul Sartre ed Ernesto Guevara in una lontana intervista: “Qual è lo scopo di questa vostra rivoluzione?” – “Ampliare il campo del possibile”.
Matteo Pernini – MCmagazine 86