800 giorni

Dennis Dellai

Gennaio 1988. Al ritorno da una festa Paolo Pierobon, figlio di un noto imprenditore vicentino, viene rapito fuori dalla sua abitazione dagli uomini dell’Ndrangheta. Inizia per il ragazzo un incubo che durerà più di 800 giorni vissuti all’interno di spazi angusti e claustrofobici, come un sepolto vivo, tra privazioni, speranze disilluse, umiliazioni. Sullo sfondo la provincia italiana di fine anni ’80, le radio private e le feste giovanili, il mondo dell’informazione e quello della politica. Un tuffo nel passato, attraverso la rievocazione di uno dei fenomeni criminali più crudeli mai conosciuti dal nostro Paese, che sconvolse le vite di centinaia di persone rapite e dei loro cari.

Italia 2023 (118′)

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  Catene, oscurità, le ultime note di Pat Metheny ascoltate prima di essere rapito come unico appiglio alla realtà: la vita di Carlo Celadon diventa film. 800 giorni del regista vicentino Denis Dellai è sbarcato il primo settembre alla Mostra del Cinema di Venezia. Quello di Celadon è stato il sequestro più lungo della storia d’Italia: l’arzignanese, figlio diciannovenne dell’imprenditore Candido, venne rapito la sera del 25 gennaio del 1988 dalla ‘ndrangheta e costretto a rimanere nascosto in grotte e ovili della Calabria per 831 giorni. La genesi del progetto non è stata semplice né immediata, ha svelato Dellai. «La prima volta che abbiamo contattato Celadon, nel 2019, non voleva che la sua storia diventasse un fenomeno mediatico – spiega – quindi abbiamo ideato una trama che si ispirasse alla sua storia, ma di fiction, con nomi differenti». L’anno successivo, Celandon e Dellai si incontrano di nuovo. «Si è sciolto – continua Dellai – ha capito che il nostro obiettivo era creare un racconto che fosse testimonianza di quanto gli era accaduto. Quando glielo ho mostrato in anteprima, mi ha detto che era un lavoro rispettoso e con ricostruzioni molto accurate». In 800 giorni è stato utilizzato anche l’audio originale che i sequestratori estorsero a Celadon, per inviarlo ai familiari. «Ero preoccupato che ce lo facesse togliere, che fosse troppo per lui riascoltarlo – ammette Dellai – ma ci ha permesso di lasciarlo: arricchisce la parte cronachistica del film». L’attenzione ai dettagli è massima, a partire dagli allestimenti: i covi dove veniva nascosto il giovane rapito sono stati ricreati osservando i servizi Rai dell’epoca, mentre è stata ricostruita la sala di una radio privata anni Ottanta, andando alla ricerca degli elementi tra collezionisti e mercatini di modernariato. In un equilibrio tra cronaca e fiction, la storia è narrata dal punto di vista della fidanzata di Celadon, mentre il ruolo del protagonista è affidato all’attore vicentino Matteo Dal Ponte. «Durante le riprese ho vissuto sulla mia pelle cosa significhi essere impossibilitati a muoversi, ho percepito la stanchezza fisica. Questi covi erano stretti – racconta Dal Ponte – Celadon non poteva alzarsi. Ho studiato i filmati, i servizi giornalistici di allora, mi sono immedesimato Per quanto possibile». «Ci piacerebbe avere un pubblico giovane, trasmettere alle nuove generazioni quel drammatico spaccato di Italia – conclude Dellai – È un periodo da non dimenticare: ciò che tenne in vita Celandon fu l’ultima canzone ascoltata, di Pat Metheny, e il pensiero che la sua ragazza lo stesse aspettando». Una luce lontana in quell’inferno di oscurità.

Camilla Gargioni – corrieredelveneto.corriere.it

  Scorrendo la filmografia di Dellai (al suo terzo lungometraggio, e dopo due corti, possiamo definirla tale) sembra di cogliere il consolidarsi di un filo conduttore che la unifica, di una necessità forse. Quella di preservare la “memoria” di eventi e luoghi che rischiano di scomparire nell’oblio del tempo, e di rappresentare a modo suo ciò che è stato e potrebbe essere dimenticato. Un invito a riflettere sulla nostra relazione con il passato, e magari anche sulla nostra responsabilità nel proteggere e condividere le storie e le memorie che definiscono chi siamo. Per chi c’era significa ripensarci e capire di più, per chi non ha vissuto quei tempi rappresenta la possibilità e finanche il dovere di conoscere; spesso capita che un’epoca si possa comprendere anche attraverso le sue storie “nere”. Il film riporta in primo piano un evento tragico per molti dimenticato e pressoché sconosciuto alla generazione più giovane; s’ispira liberamente – ma con precisi elementi reali – alla famigerata stagione dei sequestri che, dalla metà degli anni ‘70 agli inizi degli anni ‘90, assume i contorni una vera e propria piaga, una furia criminale che determina in Italia un vero e proprio calo di civiltà, una delle stagioni più oscure della storia recente del Paese. I numeri variano a seconda delle fonti e delle “finalità” (politici, terroristici, a scopo di estorsione) ma rimangono comunque spaventosi, e si possono riassumere in 600 rapimenti, 441 dei quali risolti ‘positivamente’, 152 rimasti senza esito investigativo; 2134 persone arrestate, coinvolte a vario titolo. Un giro di denaro presunto intorno agli 800 miliardi di lire dell’epoca, con la ‘ndrangheta a prendersi la parte del leone. Il fenomeno colpisce anche il Veneto e il vicentino. Alcuni non hanno mai fatto ritorno. La vicenda di Carlo Celadon vanta il triste primato del sequestro più lungo d’Italia: 831 giorni. L’incubo inizia la sera del 25 gennaio 1988, quando lui ha 18 anni. Aggredito nella sua abitazione di Arzignano, viene strappato con violenza alla sua famiglia e agli affetti; legato con il filo di ferro, mani dietro la schiena, è caricato nel bagagliaio di un’auto (Carlo è alto un metro e novanta), per un viaggio che dura 17 ore; poi viene rinchiuso in una specie di caverna poco più grande della sua massa corporea, una specie di bara con topi, serpenti, formiche e scarafaggi; incatenato, al collo e ai piedi, non può nemmeno alzarsi; la sua “libertà” di movimento misura un paio di spanne. 831 giorni. Di buio, di silenzio, di lotta contro gli elementi, caldo, freddo pioggia e fango. Un incubo inimmaginabile. Vien da chiedersi come si possa sopravvivere a questa tortura del corpo e dell’ani-ma, come si possa sfuggire al buco nero della follia, quando l’infinita attesa uccide ogni speranza, mentre il corpo e i muscoli cedono, la mente vacilla e i rapitori annientano lo spirito della vittima con uno stillicidio di menzogne sull’abbandono della famiglia, che invece – nello strazio dell’attesa dei silenzi, delle false notizie – sta facendo di tutto per riportare a casa il congiunto. Un tema difficile e delicato (meritorio, appunto, il dichiarato intento di educazione storica), e una scelta coraggiosa: quella di affidare i ruoli chiave a giovani attori (principalmente Marta Dal Santo e Matteo Dal Ponte), nel duplice intento di dare loro spazio e di portare questa incredibile vicenda all’attenzione delle nuove generazioni.

Come nei precedenti lavori, ancora una volta Dellai scommette sugli esordienti, quando avrebbe potuto sedersi comodamente sulla sedia del regista dopo aver affidato il film ad attori più esperti, che pur non mancano nella pellicola. Si assume invece un rischio, probabilmente anche una fatica in più, che però ripaga nel risultato, perché l’interpretazione – se da un lato può rivelarsi meno fluida rispetto agli attori più navigati – per altro verso conferisce al film freschezza e genuinità che a volte manca anche nelle produzioni ‘mainstream’; alla perfezione tecnica si antepone l’emozione grezza, la limpidezza di questi giovani che, a ben guardare, offrono una sfumatura funzionale e appropriata alla natura emotiva che sceneggiatura e regia scelgono d’imprimere alla storia. Emotiva anche perché assume l’angolo visuale di Maria, così da consentire maggior autonomia narrativa e libertà di movimento alla quota di finzione del film; un punto di vista che riesce a connettersi con lo spettatore coinvolgendolo nella storia e – specularmente – aiutandolo a comprendere la necessità e la forza delle relazioni umane, e l’importanza del sostegno emotivo; rivelerà in seguito Celadon che il pensiero della fidanzata lo aiutò a “sopravvivere”, un messaggio d’amore che si coglie anche nella (sua) voce dell’audio originale inserito nei titoli di coda del film. L’attenzione a questo aspetto e alle relazioni umane però non va a minimizzare o semplificare la complessità della stagione dei sequestri in Italia. Al di là della vicenda in sé, nel pretesto narrativo può anche leggersi un classico percorso di formazione, la maturazione forzata di una giovane generazione attraverso un’insospettata, forse inconsapevole resilienza: dalla vita normale alla gestione emotiva di una situazione straordinaria. Ciò che classicamente e simbolicamente si definisce perdita dell’innocenza, dell’illusione di un’Italia sicura e tranquilla, la scoperta di essere vulnerabili e che tutto può finire in un attimo, il giro di boa dell’esistenza. Nella ricostruzione degli ambienti delle radio libere anni ’80, si scorgono nel film anche precisi riferimenti autobiografici del regista e dello sceneggiatore. Un aspetto che aggiunge dimensione personale alla storia e consente allo spettatore una maggiore e più autentica immersione nel tempo e, forse, anche un pizzico di nostalgia, la stessa che provoca il rumore dei gettoni che scendevano negli oramai scomparsi telefoni pubblici.

L’attenta ricostruzione storica del Paese di fine anni ‘80 riesce a immergere il pubblico in un’epoca in cui la cronaca di queste vicende era parte della realtà quotidiana; ci porta indietro nel tempo, catturando l’estetica e l’atmosfera di quegli anni, dai quali emergono anche l’opacità, l’opportunismo e lo scarso spessore morale e culturale di politici e istituzioni al tempo, più interessati a preservare la loro immagine che ad affrontare la situazione del rapimento in modo efficace ed etico. Niente di nuovo rispetto a oggi, si dirà. Vero. Ma un côté nostalgico potrebbe far capolino anche qui, se paragoniamo il passato all’ancora più avvilente attualità…

G. Stefano Messuri – cineverdi.it

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