Vampyr – Il vampiro

Carl Theodor Dreyer

Ospite di una lugubre taverna di campagna nei pressi del villaggio di Courtempierre, il giovane Allan Gray (Julian West) viene visitato durante la notte da un misterioso e inquietante personaggio. È per lui l’inizio di un incubo a occhi aperti.

Francia/Germania 1932 (83′)

Con Vampyr, volevo creare sullo schermo un sogno in stato di veglia, e mostrare che l’orrore non risiede nelle cose intorno a noi ma nel nostro subconscio. (Carl Th. Dreyer)

Uno dei grandi film della storia del cinema, una delle avventure più enigmatiche e coinvolgenti che gli occhi degli spettatori abbiano mai incontrato. Realizzato da Dreyer nel 1932, all’indomani del capolavoro La passione di Giovanna d’Arco e all’avvento del sonoro, liberamente ispirato ad alcuni racconti di Sheridan Le Fanu, Vampyr è un film horror, un film fantastico, un film di nebbie, di luminescenze, di poche parole, di terrificanti rumori. “E quando fu sul ponte, gli vennero incontro i fantasmi”: da qui parte la strana avventura del giovane Allan Gray, che solo in un paese straniero (forse un sogno, forse il suo inconscio), immerso in un eterno crepuscolo, dovrà affrontare segnali malefici, ombre ambigue, misteriose morti, indecifrabili personaggi per trionfare sull’occulto, invisibile vampiro e poter tornare alla luce e all’amore.

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Ispirato da due racconti contenuti nel libro In a glass darkly dell’irlandese Joseph Sheridan Le Fanu, il primo film sonoro di Carl Theodor Dreyer è il capolavoro più estremo, geniale e visionario partorito della creatività del maestro danese. Rispetto ad altri suoi grandi e grandissimi film si connota per una libertà espressiva quasi sfrenata, in cui la parola scritta e i dialoghi sono per una volta messi in secondo piano rispetto alla pura potenza evocativa delle immagini (sono infatti pochissime le battute pronunciate dagli attori). Nei suoi sublimi 83 minuti offre, di contro, un campionario densissimo di allucinate soluzioni visive, inusitato per l’epoca e ancora oggi di ineguagliata fascinazione. Insieme a un sapientissimo e poliforme utilizzo della macchina da presa da parte di Dreyer, essenziale fu il contributo estetico dato al film dal direttore della fotografia Rudolph Maté: tra i molti espedienti tecnici da lui ideati nel corso delle riprese è rimasto celebre quello del velo di tulle posato sull’obiettivo, utilizzato per conferire al girato un alone di nebuloso onirismo. Le sequenze memorabili, degne di essere collocate tra i momenti più sorprendenti e disturbanti del cinema horror di tutti i tempi, non si contano. Una su tutte è senza dubbio la celeberrima soggettiva del protagonista dall’interno di una bara, durante il suo funerale. È, insieme a Nosferatu (1922) di Friedrich Wilhelm Murnau, uno tra i primissimi horror d’autore della storia del cinema.

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Il prestigio che Dreyer s’era guadagnato con La passion de Jeanne d’Arc non fu così grande da vincere la diffidenza dell’industria, né la renitenza del pubblico verso un cinema “difficile”, alieno dalle seduzioni spettacolari. Fu solo l’intervento di un mecenate (il giovane barone Nicolas de Gunzburg) che permise di mettere in cantiere, nella economia più stretta, il film successivo. Dreyer e Christen Jul si ispirarono ai racconti di uno scrittore irlandese dell’Ottocento, Sheridan Le Fanu (1814-1873). Occultismo e demonologia fornirono le suggestioni necessarie per disegnare un affresco “interiore” nella tradizione “notturna” del romanticismo tedesco e anglosassone. Il film (poco meno di 2000 metri) sarà presentato a Berlino il 6 maggio 1932. Più il regista si immergeva nelle zone oscure della coscienza, più veniva in luce non soltanto la natura del suo cinema ma anche il fondo ideologico di una cultura che da un lato risaliva ai “tremori” kierkegaardiani (la vita come instabilità e angoscia: “ciò che io sono è un nulla” e dall’altra accoglieva le esperienze esoteriche di scrittori come Ernst T. A. Hoffmann ed Edgar Poe. Quella di Dreyer si stava delineando come una ricerca dell’identità, che rimbalzava da film a film, sempre irrisolta. Con la realtà sociale il conflitto è aperto, non si intravede alcuna possibilità di conciliazione, o di compromesso. All’individuo non può non toccare in sorte la solitudine.
Il tema del vampiro può sembrare un pretesto. L’inquietudine che serpeggia nel film ha poche analogie con le tensioni di Nosferatu, anche se i punti di contatto non mancano. Semmai appaiono più pertinenti i richiami al legame che, in Das Kabinett des Dr. Caligari, unisce il medico pazzo al suo succube Cesare: la forza del Male che soggioga una coscienza debole la ritroviamo qui nella sottomissione del dottore al vampiro. Tuttavia, assai piú interessante è la circostanza che, qui, il vampiro sia una donna, una vecchia cieca morta nell’Ottocento e sepolta nel cimitero del villaggio. E più interessante ancora è il fatto che, se il dottore è il “braccio” brutale attraverso cui agisce il vampiro, il vero succube (il vero alleato del male) non è lui ma un’altra donna, Léone, la figlia del castellano. Il dottore si presenta come la minaccia effettiva (le trame malefiche del vampiro sono tessute da lui), ma Léone è la minaccia latente e più insidiosa, quella che non si conosce (per un attimo intuiamo che la donna malata è divenuta a sua volta un vampiro, quando ha la tentazione di aggredire la sorella Gisèle, ma solo alla fine scopriremo la sua vera condizione di succube e alleata dell’orrenda vecchia sepolta nel cimitero).
L’ossessione dreyeriana acquista, in Vampyr, una evidenza più netta che nella Passion, dove pure l’ambivalenza santa-strega traspariva da ogni episodio. Più netto è, inoltre, il quadro entro cui l’ossessione si manifesta. Il film oscilla fra sogno e realtà, e può essere veduto sia come una vicenda di orrori reali (tutto quel che accade, accade effettivamente) sia come l’incubo del protagonista David Gray, capitato per caso in un villaggio sulle rive di un fiume avvolto dalla nebbia (a differenza dell’Hutter di Nosferatu che nella tana del vampiro è stato inviato per eseguire un incarico). Niente impedisce (anzi, tutto consente) di ritenere che David sia una proiezione dell’autore, e che come tale sia contemporaneamente il riflesso di un’attrazione e il segno di una paura che vuole esorcizzare la realtà (della donna). Vampyr è fatto di immagini sfocate e alonate (l’operatore ha ottenuto il flou mettendo una garza nera davanti all’obiettivo), di ombre che danzano sui muri, di una ricchissima gamma di grigi, di controluci perlacei, di bianchi puri (il nulla, per Dreyer, è la luce accecante di una verità inattingibile), di suoni fuori campo (echi di misteri inconoscibili), di coincidenze inspiegabili. Una realtà che è un sogno, e viceversa.

David Gray è interpretato, sotto lo pseudonimo di Julian West, dallo stesso produttore Gunzburg. Arriva alla locanda. Una ragazzina lo accompagna in camera. Nel sonno ha l’impressione che un uomo sia entrato, come a chiedere aiuto. Si sveglia, scende per strada, vede ombre che si aggirano misteriosamente. Trova una fabbrica abbandonata, scorge una vecchia cieca passare. Continua la sua ricerca. Si introduce in una casa che sembra deserta. Sente urla provenire dalla cantina. Incontra un uomo che si muove imperiosamente. Viene cacciato. Al castello, David vede una donna a letto, sfinita. È Léone, assistita dal padre (forse è colui che s’è introdotto nella sua camera). Si ode un urlo, si scopre che lo hanno assassinato. Prima di morire egli raccomanda a David l’altra sua figlia, Gisèle. Léone, intanto, si alza dal letto, attratta da un richiamo irresistibile. David vede su di lei la vecchia che le succhia il sangue. Arriva il dottore, David riconosce l’uomo che ha incontrato nella casa deserta. Léone, tornata a letto, è in fin di vita. Occorre una trasfusione, il malefico dottore guarda David. Nel frattempo il domestico ha letto un libro rivelatore (una “storia dei vampiri” che è un elemento ricorrente del genere: c’è anche in Nosferatu). Si arma di un paletto di ferro e va al cimitero. David esce dal castello, ha una allucinazione. Si sdoppia, il suo io profondo si materializza, si avvicina a una bara e scopre che contiene il suo cadavere. Lo vengono a prendere e lui vede, attraverso il vetro della cassa, il proprio funerale (è la sequenza più celebre e “impressionante” del film). Si risveglia al cimitero. Il domestico ha scavato la tomba di Marguerite Chopin, ha scoperchiato la cassa: dentro, la vecchia cieca, il vampiro. Con il paletto le trafiggono il cuore. Muore il vampiro e, in quello stesso momento, muore Léone. Il medico non ha più alcun potere. Fugge, si nasconde in un mulino: la macina comincia a girare, la farina cade su di lui, lo soffoca (l’episodio comunica un senso quasi palpabile di angoscia: il bianco, in questa simbologia capovolta, è sinonimo di morte). David libera la dolce Gisèle, che era stata legata al letto, e se ne va con lei, su una barca attraverso il fiume nebbioso. È l’alba.

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