Carl, modello, e Yaya, rampante influencer da social, si trovano a far parte di una crociera di lusso frequentata solo da milionari provenienti da ogni parte del mondo. In seguito a un progressivo disgregamento dell’armonia a bordo, la vacanza acquisisce toni sempre più apocalittici. La situazione degenera ulteriormente quando lo yacht affonda e alcuni superstiti si trovano naufraghi su un’isola deserta..
USA 2022 (134′)
CANNES 75°: Palma d’oro
Triangle of Sadness è il film vincitore del premio più prestigioso del Festival di Cannes di quest’anno. Alla regia c’è lo svedese Ruben Östlund, che aveva già ottenuto (un po’ generosamente) lo stesso premio nel 2017 con The Square e che si conferma con questa pellicola un autore che non lascia mai indifferenti. Protagonista del film è una coppia di modelli invitati a partecipare a una crociera di lusso insieme a un bizzarro gruppo di personaggi. Tutto all’inizio sembra piacevole, ma un evento catastrofico trasformerà il viaggio in un’avventura da incubo, dove ogni gerarchia finirà per essere capovolta. Dopo aver messo alla berlina il mondo dell’arte nel controverso e discutibile lungometraggio precedente, Östlund fa la stessa cosa con il mondo della moda e, soprattutto, degli influencer, inseriti non a caso in un contesto in cui sono circondati da figure che si sono arricchite nelle maniere più disparate e non sempre in modo del tutto pulito (emblematico il caso di una coppia di anziani diventata ricca grazie alla realizzazione di granate a mano).Diviso in tre capitoli, il film si apre con una lunga conversazione dei due protagonisti attorno a un conto da pagare, prosegue con la notevolissima parte a bordo del super yacht e si conclude su un’isola dove i ruoli si ribalteranno improvvisamente. Si può definire Triangle of Sadness una satira sui tempi in cui viviamo, una commedia nera dal taglio sociologico e politico che racconta il cinismo contemporaneo riuscendo tanto a far riflettere quanto a divertire.Nonostante si possano citare dei possibili modelli di riferimento (un esempio può essere Luis Buñuel per la capacità di mettere in risalto il cinismo di certe classi sociali), Östlund ha uno stile ormai personalissimo, riconoscibile e discutibile allo stesso tempo. In questo caso però, nonostante una durata non indifferente (circa 2h30m), la narrazione è così tagliente e intelligente da non far pesare il lungo minutaggio e il risultato è forse il miglior film realizzato in carriera dal regista che aveva già stupito con Forza maggiore nel 2014.
Andrea Chimento – ilsole24ore.com
Diciamolo subito senza far tanto gli schizzinosi. Lo svedese Triangle of Sadness è uno degli oggetti più potenti apparsi in questi anni nella categoria (oggi trascurata) dei film “grand public”. Non solo per ciò che mostra e racconta, ma proprio per come lo fa. Facile liquidarlo come satira della lotta di classe e di genere additando gli eccessi: troppo lungo il naufragio, troppo vomito che schizza da bocche e toilette, troppo meschini i tanti personaggi. La verità è che Ruben Östlund, due volte palma d’oro a Cannes (la prima la vinse con The Square, altro film geniale e imperfetto), ha un dono. Sa far parlare i corpi. Ovvero sa incarnare con rara abilità i conflitti in cui siamo immersi (tanto da non farci nemmeno più caso) costruendo personaggi capaci di far esplodere le contraddizioni senza perdere un grammo di leggerezza e di simpatia. Sì, simpatia. I personaggi di Östlund possono essere tremendi ma capiamo sempre benissimo il loro punto di vista e i loro sentimenti. Altro che cinismo insomma. Il povero Carl, fotomodello scultoreo fidanzato a una collega e influencer anche più bella (e pagata) di lui, la coriacea Yaya, fa tenerezza fin dal prologo, esilarante, che infilza tic e tabù dell’alta moda (e dei rapporti fra i sessi) mettendo a fuoco il potere esorbitante della bellezza e insieme il suo prezzo.
Ma resta al centro di questa affollata sarabanda anche quando sembriamo perderlo di vista, durante la crociera di ultraricchi, per tornare in primo piano dopo il naufragio, che ribalta in modo insieme atroce e beffardo i rapporti di forza e di classe. Con una crudeltà che può mettere a disagio, certamente (si pensa a Parasite o alla seconda parte di The Lobster). Anche se il senso formidabile delle caratterizzazioni e le molte invenzioni di regia (gusto delle inquadrature e del fuori campo, uso della musica, etc.) permettono a Östlund di spingersi sempre più in là del previsto. Mettendo a fuoco con allegra spietatezza ciò che non cambia, anche quando il Caso redistribuisce le parti e una umile cameriera filippina diventa il capo dei sopravvissuti perché è l’unica che sa come sopravvivere su quell’isola. I detrattori parlano di mancanza di finezza. Ma è pura ipocrisia. A disturbarli davvero è l’alleanza, così insolita, fra il senso del comico e quello del sacro.
Fabio Ferzetti – espresso.repubblica.it