Charlie, un insegnante affetto da una grave obesità, vive recluso in casa accudito solo da un’infermiera, tenendo corsi universitari di scrittura online a webcam spenta. Dopo una diagnosi che gli da poco tempo da vivere, l’uomo decide di riallacciare i rapporti con la figlia adolescente, deciso a scavare nei propri ricordi e nei traumi che hanno segnato la sua vita, cercando alfine un’ultima possibilità di riscatto.
USA 2022 (117′)
OSCAR: miglior attore protagonista
VENEZIA – The Whale, ovvero la tortura del corpo per mostrare le ossessioni e le ferite dell’anima: con questo suo tema chiave Darren Aronofsky torna alla Mostra del Cinema di Venezia, dove nel 2008 aveva vinto il Leone d’oro per The Wrestler.
Charlie, un professore d’inglese divenuto obeso (Brendan Fraser) vive recluso nel suo appartamento: si mantiene insegnando tecniche di scrittura a distanza, tenendo il video oscurato. Da tempo l’unica visita che riceve è quella di un’amica-infermiera (Hong Chau, brava nel delineare le sfumature di un rapporto che va dalla tenerezza alla rabbia impotente); con regolarità passa il ragazzo che consegna la pizza, lasciandola rigorosamente fuori dalla porta. Scopriamo presto che all’origine della sua attuale condizione c’è un trauma mai superato: la morte del compagno, un ex studente per il quale anni prima aveva lasciato la moglie e la figlia bambina. Ora, in condizioni di salute sempre più precarie, Charlie cova il desiderio di riallacciare un rapporto con la figlia Ellie, ormai adolescente ribelle (la Sadie Sink di Stranger Things). In questa situazione uno strano ragazzo entra un giorno nella casa di Charlie. Lo spazio filmico è dunque confinato in poco più di una stanza, ma subito il regista lo rende dinamico e lo carica di tensione mostrando la sfida che ogni minimo atto quotidiano rappresenta per lui: Aronofsky come sempre dà il meglio di sè nel mostrare la fatica che il corpo, in questo caso enorme, comporta. Il lavoro sul corpo e col corpo che il regista chiede ai suoi attori va sempre oltre i limiti usuali, affonda nel vissuto personale dell’attore stesso e se ne nutre : pensiamo a Mickey Rourke in The Wrestler, a Natalie Portman ne Il Cigno nero (Oscar come migliore attrice), a Jennifer Lawrence in Madre!. Il protagonista di The Whale è Brendan Fraser: dopo essere stato l’aitante interprete di Tarzan e della serie blockbuster su La Mummia, Fraser, appesantito a causa di problemi di salute, ha provato sulla sua pelle il tradimento del fisico e i problemi di identità che questo può comportare. Forse per questo, forse per la vulnerabilità che lo sguardo dell’attore riesce a trasmettere, Aronofsky, dopo una ricerca che ha detto essere durata anni, ha scelto lui per portare sullo schermo la piece omonima di Samuel D. Hunter. L’autore del testo teatrale vi ha riversato la propria esperienza giovanile di obesità e di sofferenza per un’omosessualità non accettata dalla famiglia. Due temi importanti del film sono infatti lo stigma legato all’obesità, evocato dall’atteggiamento di molti dei personaggi, e il rifiuto da parte della famiglia di riconoscere l’identità di un figlio, all’origine della morte del compagno di Charlie. Quest’ultimo motivo è presente in più di un’opera di Venezia 79: pensiamo all’internamento della sorella di Nan Goldin nel film Leone d’oro o agli elettroshock praticati dalla famiglia al giovane coprotagonista del film di Amelio su Braibanti.
Il tema centrale di The Whale poggia però sulla felice scelta dell’attore protagonista, perchè Brendan Fraser riesce a creare quasi immediatamente nello spettatore quell’empatia nei confronti del personaggio, indispensabile per appassionarsi a una storia respingente. Ma, soprattutto, riesce a rendere credibile i due volti di Charlie o meglio la compresenza in lui di forze opposte: il fallimento e la speranza, la disperazione e la forza interiore, la vulnerabilità e la determinazione. Alla domanda posta dal film “è possibile salvare qualcuno?” Charlie non sembrerebbe nelle condizioni di rispondere positivamente, eppure lo fa e a tratti la sua fiducia di fronte alla terribile figlia ci appare irritante: ma il film, seguendo l’opera teatrale, è un meccanismo ben costruito di svelamento delle motivazioni dei personaggi e alla fine capiremo. Rispetto al delirante finale di Madre! la solidità della struttura dovuta alla piece teatrale si fa apprezzare, ma forse in un congegno così oliato un piccolo deragliamento avrebbe fatto sentire meglio l’impronta di Aronofsky .
Licia Miolo– MCmagazine 76