Un’attenta ricostruzione biografica e una puntuale analisi critica dell’opera e della vita di Buster Keaton. Ma soprattutto un omaggio affezionato firmato da uno dei maestri della New Hollywood, Peter Bogdanovich. È attraverso la sua voce, e quella di molti altri (da Orson Welles a Quentin Tarantino), che ripercorriamo la carriera del geniale comico dall’espressione impassibile, dalle origini fino alla malinconica parabola discendente, accompagnati dalle immagini dei suoi film e dalle sue gag surreali e irresistibili.
USA 2018 (102′)
L’essenza di questo delizioso documentario dedicato a Buster Keaton risiede tutta nel suo titolo. Si tratta infatti di una vera e propria celebrazione, un appassionato e sincero omaggio di un regista innamorato di chi lo ha ispirato. Risulta infatti impossibile a Bogdanovich trattenere l’emozione e la stima nutriti per il suo Maestro. Così, grazie al “classico” materiale di repertorio, il film ricostruisce passo per passo la carriera di uno dei più grandi talenti comici di sempre, cercando di fornire in maniera didattica una radiografia a 360 di gradi del geniale tocco registico di Keaton e della risonanza e l’influenza che i suoi film hanno avuto nel cinema internazionale. Tuttavia, la vera ricchezza del lavoro di Bogdanovich non sta nella celebrazione del mito, nel restauro (impeccabile) delle sue opere più datate, negli aneddoti raccontati o nelle interviste ai numerosi ospiti chiamati a raccolta proprio per l’occasione (da Tarantino a Mel Brooks passando per Herzog), bensì va ricercata nella cura filologica che il regista ha coltivato in fase di scrittura. The Great Buster: A Celebration pur muovendosi su binari piuttosto convenzionali e consolidati, è un intelligente omaggio anche (e soprattutto) nella sua forma. Bogdanovich gioca con le immagini a sua disposizione per creare qualcosa di nuovo e unico, qualcosa di divertente ed esilarante in perfetto stile Keaton. Utilizza l’apparato sonoro per dare ulteriore spessore al tutto e continua a ricercare, in ogni minuto, la seconda anima espressa dal titolo del film, ovvero il grande capitombolo (letteralmente, the great buster): il marchio di fabbrica della risata keatoniana, il fiore all’occhiello di un bambino prodigio capace di numeri corporali fuori dal comune e che l’illusionista Houdini contribuì a scolpire nella leggenda (si deve a lui, infatti, l’esclamazione «What a buster!» dalla quale nascerà il nome d’arte del comico). Prendendo spunto dal Maestro del capitombolo, insomma, il regista finisce per dare (nuova) vita alla celebrazione della risata, un’arte antica e misteriosa che in anni come questi fa sempre molto piacere tornare ad assaporare.
Simone Soranna – cinematografo.it
La voce calda e profonda di Peter Bogdanovich fa da guida all’interno di una vasta raccolta di materiale proveniente da diversi archivi e biblioteche, che fanno del documentario un viaggio nel passato e verso ciò il passato porta al presente. Così si ha la sensazione che Buster Keaton non morirà mai. Le foto ormai ingiallite e i manifesti che ritraggono il piccolo Buster nell’esibirsi durante gli spettacoli di vaudeville con i genitori, e successivamente anche con i fratelli più piccoli, sono parte della documentazione proposta. Un insieme di fonti che Bogdanovich accosta ritmicamente e in maniera ironica a partire dal materiale musicale e dai frammenti di film, con e di Keaton. Inoltre per la prima metà il documentario è frammentato dalle interviste a illustri nomi indimenticabili appartenenti a diverse generazioni: da Dick Van Dyke (caro amico di Keaton) e un Orson Welles che introduce il film Come vinsi la guerra, a Quentin Tarantino – che afferma di adorare il personaggio keatoniano per il suo non sottomettersi scimmiottando i personaggi prevaricatori – fino a Jon Watts, il quale racconta di essersi ispirato al movimento del corpo di Keaton ed alle sue gag per il suo Spider-Man.
Bogdanovich parte dalle origini di Buster, dalle sue prime parti nei cortometraggi di Roscoe (Fatty) Artbuckle, e prosegue con i film scritti, diretti ed interpretati da Buster, in quello che risulta un documentario tributo alla memoria di Keaton dall’impostazione semplice e lineare, quasi televisivo. Il co-produttore del film e il direttore della fotografia – in occasione della 75a Mostra del Cinema di Venezia – hanno raccontato che il montaggio è avvenuto nell’arco di un anno, ed è stato suddiviso in due fasi: dapprima la parte relativa alla documentazione e successivamente quella riguardante le interviste. Quest’ultime inoltre sono state girate nello stesso luogo, ma per non risultare ridondanti e ripetitive hanno cercato di variare le inquadrature il più possibile affinché potessero sembrare diversi collocazioni. Peter Bogdanovich, negli ultimi venti minuti, ha deciso di omaggiare il grande maestro attraverso una breve analisi di alcuni dei suoi film più noti, lasciando spazio a un lato critico che accompagna l’approfondimento. Narra ovviamente anche del crollo di Keaton in seguito non solo all’avvento del sonoro, ma anche, e soprattutto, al carcere mentale a cui la MGM lo ha costretto. L’imposizione di una struttura precisa e il dover scrivere sulla carta ogni singola questione riguardante un suo film in produzione, ha fatto sì che l’arte di Keaton, fatta soprattutto di gag improvvisate, venisse sventrata fino a costringerlo a un ricovero forzato in manicomio. Bogdanovich si sofferma anche sulla fase meno nota della carriera di Keaton, che lo vede protagonista di numerosi spot pubblicitari slapstick, e anche quella in cui lo si vede recitare in film profondamente drammatici: purtroppo solo in età avanzata, perché come sostiene anche Bogdanovich, forse quella direzione avrebbe potuto mantenere il suo genio artistico più a lungo, magari senza farlo sprofondare nell’alcol e nella depressione.
Carolina Caterina Minguzzi – cinefiliaritrovata.it