14 Novembre 1951, l’argine sinistro del Po a poche centinaia di metri dal ponte della ferrovia Padova-Bologna si spacca. La marea invade in pochi minuti le terre del Polesine, una delle regioni all’epoca più misere di tutta Italia. Migliaia di uomini, donne e bambini scappano mentre l’acqua rimane stagnante per mesi tra le case e le campagne. 70 anni dopo, i bambini di allora ricordano con una memoria ancora viva quei mesi immortalati dalle pellicole conservate negli archivi dell’Istituto Luce.
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Italia 2022 (75′)
Non ci sono solo le guerre a sconvolgere la vita dei popoli. A volte è la Natura che distrugge ma i risultati sono simili perché trasformano gli abitanti in profughi, costretti a cercare altri spazi per vivere. È il messaggio che ci lascia il bel documentario Po, in arrivo nei cinema, realizzato da Andrea Segre e Gian Antonio Stella e prodotto dall’Istituto Luce sull’alluvione che nel novembre 1951 costrinse 100mila polesani a lasciare le proprie case, sommerse dall’acqua. Allora non avevano la tv ma cinque operatori documentarono i fatti per quello che allora era il mezzo di comunicazione di massa, il cinema, e i suoi cinegiornali restituirono a tutto il Paese la dimensione immane di quella tragedia. Riprese che Segre e Stella hanno recuperato (e restaurato) per accompagnare i ricordi di chi allora era bambino e subì sulla propria pelle il destino del profugo. Oggi hanno tutti più di settant’anni, alcuni anche ottanta ma il ricordo di quei giorni non si è mai cancellato perché, se la logica dei soccorsi era quella di salvare prima i bambini, molti furono presi e separati dai genitori, rimasti ad aspettare i soccorritori successivi. Finendo spesso per dover aspettare anche un mese prima di poter essere ricongiunti a mamme e papà. Sempre che non fosse successo come a quelle 84 persone che salite su un camion per fuggire furono travolte da un’improvvisa onda di piena, annegando. E i ricordi di un figlio (vivo perché separato dai genitori e portato via prima) sono tra i momenti più strazianti del film: «Nessuno mi diceva niente, si vergognavano anche a parlarmi pur di non dovermi dire quello che era successo». Segre e Stella non fanno domande, lasciano che la memoria faccia il suo compito, aiutando lo spettatore con gli estratti dai cinegiornali i cui commenti stridono con il dolore dei volti muti. C’è chi ricorda anche con allegra impertinenza il braccio di ferro per un piatto di minestra col parroco anticomunista che l’aveva sentita cantare Bandiera rossa con le amiche. Ma c’è anche chi non ha dimenticato la fame della sua condizione di «emigrato» in Piemonte o il disprezzo nemmeno tanto mascherato di chi li chiamava con il nome del loro paese e non con quello di battesimo. Tutti accomunati da un destino di «profughi» che non si è mai cancellato.
Paolo Mereghetti – corriere.it
L‘infaticabile Andrea Segre arricchisce con un’ulteriore tappa il suo percorso creativo, firmando un nuovo documentario, che è il suo riferimento principale, oltre al più riuscito, stavolta con il giornalista e scrittore Gian Antonio Stella. Il film si chiama semplicemente Po, perché probabilmente non c’è davvero bisogno di aggiungere altro. Po non è solo il nome del fiume più lungo d’Italia, ma anche un modo di intendere la vita, come dice d’altronde uno degli intervistati, che dai quei luoghi probabilmente non si è mai mosso troppo. Po non è solo una ricognizione dell’oggi, ma soprattutto una rilettura di un territorio e dei suoi abitanti, che parte ovviamente da uno degli eventi più tragici dell’Italia dell’immediato dopoguerra: la grande alluvione del ’51, già raccontata diverse volte, ma che per Segre (e Stella) meritava un ulteriore ripasso.
Su questo il regista padovano di Io sono Li e Welcome Venice, non ha dubbi: «È un film che nasce per valorizzare un archivio fenomenale, materiale che in tanti anni non si era mai visto portato in sala. L’Istituto Luce ha contattato Stella, che a sua volta ha chiamato me. Con Gian Antonio ci conosciamo da diversi anni. Avevo già collaborato con lui all’epoca dei miei documentari sugli immigrati, che lui aveva seguito e apprezzato, come Mare chiuso, L’ordine delle cose eccetera. L’idea mi è piaciuta subito, anche quella di lavorare insieme ed eccoci qua». Il Po svolge un’attrazione forte, specie in chi non lo conosce bene: «Indubbiamente. È una zona che conoscevo soprattutto attraverso Rovigo, dove mia madre lavorò per diverso tempo alla Agenzia delle Entrate. Così ci andavo ogni tanto e oggi lo rivivo attraverso dei flash, attraverso il paesaggio che da bambino scoprivo dal treno che da Rovigo arrivava a Chioggia, la città di mia mamma. Il fiume lo frequentavo meno, un rapporto che per tutti non c’è più comunque come allora. Il Po oggi non è più vissuto, usato come un tempo, quando serviva soprattutto come trasporto fluviale. E l’alluvione lo ha reso, dal quel lontano ’51, ancora meno abitabile. All’inizio del film quando esploriamo ai giorni nostri il delta del fiume, mostro soprattutto il suo vuoto, non essendoci più grande scambio con la popolazione, un vuoto che fa sì che il Po oggi venga narrato solo mitologicamente».
Andare in giro in cerca di testimonianze è stata la risorsa essenziale per dare forma al documentario: «Mi sono piaciute le persone. Il territorio resta bellissimo, anche se tutto si concentra sul delta, mentre fu la campagna tra Occhiobello e Adria ad essere la più colpita, là dove si parla una lingua mista tra dialetto veneto e ferrarese, una linea di confine anche socio-politica, tra il bianco e il rosso, un bell’incrocio che ha acceso la nostra voglia di indagare, trovare, capire, dare un valore giornalistico alla nostra ricerca, anche storica, sulle orme ad esempio del grande lavoro svolto da Gian Antonio Cibotto». Il resto lo fa, come detto, tanto materiale d’archivio, che si alterna con il girato ai giorni nostri, dove gli intervistati ricordano quel tragico evento e raccontano la loro vita a ridosso del fiume…
Antonio De Grandis – Il Gazzettino