Una giovane madre tenta un viaggio per riportare in vita la sua bambina morta. Un film dove il classico viaggio dell’eroina è fatto di carne viva, dolore e di un’oscurità di straziante bellezza. Un’esperienza cinematografica “miracolosa”.
Italia/Francia/Slovenia 2021 (89′)
Piccolo corpo è ambientato agli inizi del ‘900 in un’isoletta del nord est italiano. Qui la giovane Agata (Celeste Cescutti) perde sua figlia alla nascita. “Non si possono battezzare i bambini nati morti. È la regola”. L’anima di quella creatura è condannata al Limbo, senza nome e senza pace. Agata, allora, non si rassegna all’idea che “il tuo corpo se ne dimenticherà, e il tuo cuore anche” e decide di credere alla voce secondo la quale sulle montagne del nord esiste un luogo dove i bimbi nati morti vengono riportati in vita il tempo di un respiro, quello necessario a battezzarli. Odissea fisica e trascendentale, il viaggio della donna – che lascia segretamente l’isola con il piccolo corpo della figlia nascosto in una scatola, senza conoscere minimamente il tragitto da intraprendere – è spinto da una speranza che travalica qualsiasi dogma, e che tramuta la simbiosi dei precedenti nove mesi in una sorta di “continuazione della gravidanza, in cui il ventre si sposta metaforicamente sulla schiena, divenendo il peso che porta sulle spalle”, sottolinea la Samani.
Girato in continuità cronologica (di fatto il film compie lo stesso viaggio di Agata, dalla laguna di Caorle e Bibione alle montagne della Carnia e del Tarvisiano), Piccolo corpo è Cinema la cui poesia e radicalità non possono prescindere dal territorio che le nutre, geograficamente, culturalmente e linguisticamente. Ma che al tempo stesso sa restituire l’afflato di un grande respiro internazionale.
Valerio Sammarco – cinematografo.it
In un’isoletta del Nordest Agata partorisce una bambina nata morta, e il prete della comunità di pescatori cui appartiene non può battezzarla. Ma la giovane donna non accetta che sua figlia resti “un’anima perduta nel limbo”, vuole riconoscere la sua identità affinché non sia “mai esistita”, e un uomo le indica la possibile soluzione: portare la piccola in Val Dolais, fra le montagne innevate dell’estremo nord, dove “c’è una chiesa in cui risvegliano i bambini nati morti”. Basta un respiro, e si può dare loro un nome, liberandoli dal limbo. Agata intraprenderà il viaggio verso quel santuario a metà fra il religioso e il pagano, con la sua creatura dentro una scatola di legno, e sulla strada incontrerà Lince, un personaggio con molti segreti da difendere.
Piccolo corpo, opera prima di Laura Samani, parla di miracoli (im)possibili. Il viaggio di Agata attraversa gli elementi e la materia: aria, terra, acqua e fuoco, ma anche legno, luce, pietra, neve, fumo, lana, latte. La cinepresa della regista e sceneggiatrice (con Marco Borromei ed Elisa Dondi) asseconda Agata nel suo peregrinare risoluto, e le sue inquadrature sono imbevute di un gusto pittorico e di una tradizione cinematografica (soprattutto quella di Ermanno Olmi) profondamente, radicalmente italiani. Agata (come Samani) si spinge sempre oltre: attraversa luoghi (e fasi esistenziali) di non ritorno, entra dentro la visceralità di un istinto primigenio, affronta in maniera diretta e vertiginosamente profonda il dolore per la perdita di un non nato, e rifiuta il commento più ottusamente crudele di tutti: “Farai altri figli”. Perché per Agata esiste solo quella bambina, unica ed irripetibile, e la sua determinazione a strapparla dall’anonimato ha una potenza ancestrale inarrestabile.
Il viaggio di Agata, come ogni percorso femminile, è una staffetta per portare un poco più avanti il testimone secondo un movimento irreversibile, ed è capace di far ritrovare la propria femminilità anche a chi l’ha negata, a ricostruire il legame indissolubile fra una mamma e una figlia anche in chi, dalla propria madre, è stata rifiutata. È un “viaggio dell’eroina” nel senso drammaturgico più puro, disseminato di prove, antagonisti, mentori e alleati, e Samani ne segue la linea archetipale rimanendo incollata ai corpi e alle cose, essenziale e autentica, tattica e olfattiva, silenziosa e dolente. Agata, giovane donna di mare, si inerpica su per la montagna entrando in un universo a lei ignoto, attraversa una galleria senza sapere se rivedrà mai la luce, si immerge in un lago del quale non vede il fondo: membrane naturali che sono anche tappe di conoscenza e gradini di consapevolezza che contagiano anche Lince. La morbidezza delle immagini nasconde una durezza di fondo che è la piena coscienza di un dolore inaccettabile, perché “il corpo e il cuore non dimenticano”.
Recitato in veneto e friulano, Piccolo corpo espone il dialogo fra persone che provengono da microcosmi così ristretti da esprimersi in dialetti reciprocamente incomprensibili, e ciò nonostante si capiscono in quanto condividono lo stesso destino di esclusione. Agata intraprende il suo viaggio da sola perché “non ha pensato di avere paura”, attraversa luoghi dove “le femmine non possono entrare perché se le prende la montagna”, abissi dai quali “non si esce vive”, e in cui lei, come Orfeo, penetra in cerca della sua Euridice. Perché allontanarsi da un figlio può risultare impossibile, “se non hai un nome è come se non esistessi”, e sua figlia quel nome deve trovarlo prima dell’addio.
“Pensi di meritarti questo miracolo?”, chiedono ad Agata. Ma il miracolo vero l’ha fatto Laura Samani, creando un mondo e un’eroina fatti di carne viva intenta a strappare la “carne della propria carne” dalla ineluttabilità della morte, immergendosi nella paura e nel dolore, scendendo in quell’oscurità che ha una sua straziante bellezza, se non è negata, se riconosce a se stessa il proprio nome.
Paola Casella – mymovies.it
Concretamente materico e insieme altamente spirituale, la regista fa leva sulla tradizione pittorica per restituire una dimensione ancestrale ed eterna, raccontando il legame materno come una forza propulsiva incapace di accettazione dell’umana finitezza. Un’esplorazione del femminile nelle sue forme più estreme attraverso un linguaggio cinematografico irriducibilmente vitale che individua nel corpo il suo alfabeto.