Maigret indaga sulla morte di una giovane ragazza. Non c’è niente che la identifichi, nessuno sembra conoscerla o ricordarla. Durante le indagini Maigret incontra una delinquente, che somiglia stranamente alla vittima, e risveglia in lui il ricordo di un’altra scomparsa, più antica e più intima…
Il titolo è infedele, l’adattamento libero, l’ambizione scoperta. Portare sullo schermo Maigret e la giovane morta, 45mo titolo del ciclo, intitolandolo seccamente Maigret, significa voler dare una sorta di versione definitiva, o almeno aggiornata, della creatura più celebre di Simenon. Affidarlo a un Depardieu ormai prigioniero della sua stazza (oltre che della sua storia), ma ancora di miracolosa espressività, porta poi il film di Leconte in una direzione doppiamente personale. Come se attraverso il corpo e lo sguardo del commissario, Depardieu indagasse anche sullo stato di salute del cinema. O meglio di quanto resta di un cinema che una volta esprimeva star del suo genere.
La settima arte, macchina delle illusioni ma non solo, ha infatti un suo ruolo nell’inchiesta sul caso di una ragazza ritrovata misteriosamente morta che in apertura abbiamo visto recarsi a una fastosa festa di nozze. Quanto alla salute malferma del commissario, invade lo schermo fin dall’inizio. Proiettando quel caso in una dimensione ancora più intima. Biancheria dozzinale sotto un abito da gran sera, il corpo devastato dalle coltellate, l’uccisa non sembra aver lasciato tracce. Chi era, da dove veniva, come viveva? La brutalità del delitto e la pulizia di quel viso risvegliano in Maigret il ricordo della figlia scomparsa – ma è solo un attimo, un’ombra scura che Leconte riassorbe nel passo lento delle indagini, nella disillusione totale del commissario («Come si sente?», gli chiedono alla morgue davanti al cadavere. E lui: «Nudo»). Ma anche nell’uso magistrale di forme e tic da “cinéma de papa”, e in particolare delle scenografie. Una Parigi anni Cinquanta che non sembra ancora uscita dal dopoguerra, popolata da sopravvissuti lituani, da affittacamere ficcanaso. E da un mondo di ragazze di provincia che cercano strade facili per la sopravvivenza (sì, volendo c’è anche l’ombra del MeToo). Un’occasione d’oro per il regista di Monsieur Hire (altro Simenon), Il marito della parrucchiera, La ragazza sul ponte, uno degli ultimi esponenti di quel gusto sapientemente artigianale, sempre corretto da un tocco personale, che sprofonda in questo passato fittizio con la voluttà dell’ultima volta. E la classe del grande direttore d’orchestra che sa accordare alla perfezione giovani semisconosciute a un mostro sacro come Depardieu.
Fabio Ferzetti – espresso.repubblica.it
Cupo, fumoso, asciutto e intenso. Così il Maigret con Gérard Depardieu, ovvero la nuova versione cinematografica del celebre commissario con la pipa. Patrice Leconte realizza uno dei suoi film migliori, uno dei più struggenti adattamenti dei romanzi di Georges Simenon. Tratto dal romanzo Maigret e la giovane morta (ed. Adelphi). Narra la storia del commissario Maigret (Depardieu), impegnato nelle indagini su una ragazza senza nome. Morta apparentemente per una serie di pugnalate. Nessun elemento permette di identificare la ragazza, né il suo passato o un possibile movente. Nelle ricerche, il commissario si imbatte in una giovane delinquente che ha un viso e un aspetto molto somiglianti alla vittima. L’incontro si rivelerà un primo passo verso la verità, ma risveglia anche traumi personali del passato di Maigret. Perché è un film essenziale e secco, come un romanzo di Simenon. Senza un’inquadratura di troppo, una parola di troppo, un orpello non funzionale al racconto. Dura meno di un’ora e mezza e vorresti durasse almeno il doppio. Ha un andamento che è “lento”, come l’appesantito e affaticato commissario. Al quale, per problemi di salute, viene proibito di fumare fin dall’inizio del film. Maigret si dedicherà – per quasi tutto il racconto – soltanto all’altro vizio che lo caratterizza anche sulla pagina, il bere. Leconte segue il “suo” commissario Maigret-Depardieu spesso di spalle, assecondandone i movimenti quasi da pachiderma sfiancato dalla vita e dalle (troppe) morti alle quali ha assistito. Intorno, una Parigi di vizi, meschinità, “portinarismo” e superstizioni. Di banale senso comune, dicerie e aridità umana. Mentre nell’ombra dei vicoli si perpetuano il male e l’indifferenza verso i fragili e gli emarginati. Un film (purtroppo) estremamente contemporaneo, benché ambientato al passato e con una messinscena d’altri tempi.
Luca Bernabè – amica.it
Era sostanzialmente dagli anni Sessanta, dai tempi di Jean Gabin e di Gino Cervi, che non arrivava sul grande schermo un film sul Commissario Maigret, diventato nel corso dei decenni sempre più un personaggio televisivo. Nonostante la discreta qualità trovata sul piccolo schermo, il cinema sembra il luogo perfetto per far rivivere il personaggio creato dalla penna di Georges Simenon con questa pellicola, intitolata semplicemente con il cognome del commissario. Alla base del film di Patrice Leconte, che trova un po’ di slancio dopo diversi progetti poco interessanti, c’è il romanzo Maigret e la giovane morta del 1954, ma è un’ispirazione molto libera per un prodotto che rimane fedele allo spirito, ma non alla lettera, del testo di partenza. Fin dai titoli di testa si percepisce il tono del film: Maigret sta facendo una visita medica che lo costringerà ad abbandonare momentaneamente la sua storica pipa (notevole una citazione di Magritte in questo senso nella seconda parte del lungometraggio). Se infatti la messinscena di Leconte è efficace ma priva di grandi guizzi, la forza del film risiede tutta nella descrizione di un protagonista, stanco e cupo più che mai, che rende il film riuscito e profondo. Il coinvolgimento per la vicenda “gialla” funziona a fasi alterne, mentre appassiona scavare all’interno della psicologia di Maigret, magnificamente interpretato da un Gérard Depardieu in una delle prove più intense della sua intera carriera: nel suo sguardo disilluso e malinconico, c’è il Maigret perfetto per i tempi odierni e per riportare questo personaggio sul grande schermo. Ottime le ultime sequenze, probabilmente le migliori dell’intera operazione
longtake.it