Licorice pizza

Paul Thomas Anderson

Los Angeles, 1973. Gary Valentine, adolescente intraprendente e fanfarone, incontra Alana Kane, venticinquenne sul cammino dell’indipendenza. Lui le dichiara amore eterno, lei tende a rifiutare. Dieci anni li separano ma in fondo sono irresistibilmente attratti l’uno dall’altra mentre sembrano non capire se si amano davvero o se amano soltanto l’idea di amarsi. La loro effervescente storia parte, vaga, sosta, svolta, si riallinea in fondo alla notte e alla San Fernando Valley.

 

USA 2021 (133′)
premio BAFTA 2022 – miglior sceneggiatura originale

È una storia d’amore e di velocità. Le velocità così diverse, ma alla fine magicamente sincrone, di Alana e Gary, 25 anni lei, 15 lui (sì, avete letto bene). È un film ambientato nella San Fernando Valley del 1973, accanto a Hollywood. Anche se usa il cinema come tutte le mitologie dell’epoca: non per citare, riassemblare e pantografare, come farebbe un qualsiasi Tarantino, ma per creare un mondo sempre al limite dell’assurdo e insieme perfettamente logico, con una libertà di tono e una profondità emotiva che sono un regalo.
È, infine, un film di Paul Thomas Anderson, lo spericolato regista di The Master e Il filo nascosto ma anche di Boogie Nights e Vizio di forma, altri due titoli ambientati nella California anni Settanta. Che qui si sbarazza di ogni elemento ingombrante (il tema, il genere, la Storia, anche se i riferimenti all’epoca sono numerosi e puntuali) per librarsi nello spazio rarefatto e inesorabile dell’interiorità. Un’interiorità evocata con i mezzi del grande cinema: primi piani vasti come paesaggi ma attenti alla minima increspatura, accelerazioni e rallentamenti improvvisi, digressioni che sembrano portare i due protagonisti chissà dove solo per spingerli più in fondo. A se stessi e al loro incontro.
Alana e Gary, dunque (gli esordienti Alana Haim e Cooper Hoffman, figlio del rimpianto Philip Seymour Hoffman, corpi e volti non conformi, che meraviglia). Lei ancora inchiodata nella sua soffocante famiglia di ebrei osservanti. Lui adolescente coi brufoli ma anche baby attore, americanissimo campione di intraprendenza e faccia tosta, uno che un giorno recita in tv, un altro vende materassi ad acqua, e intanto ci prova con tutte anche se pensa solo a Alana. Due così non dovrebbero nemmeno incontrarsi, figuriamoci innamorarsi. Invece tra una scaramuccia e una vendetta, una telefonata muta ma eloquentissima (scena sublime) e un incontro con un divo fanfarone (“cameos” di Sean Penn e Tom Waits), Alana e Gary non fanno che perdersi e ritrovarsi, cercarsi e salvarsi, talvolta letteralmente. In un susseguirsi di fughe, provocazioni, allusioni d’epoca, che fondono la virulenza selvaggia di quegli anni pre-crisi (l’embargo petrolifero arriva a metà film) all’energia senza età dell’adolescenza. Avevamo un po’ perso di vista il grande cinema americano. Licorice Pizza ci ricorda di cosa è capace.

L’Espresso

Boy Meets Girl: potrebbe essere questa la semplice sinossi di un film frammentato eppur sempre coerente, popolare e colto allo stesso tempo, malinconico e divertente. Arrivato al suo decimo lungometraggio (contando anche il documentario Junun del 2015), Paul Thomas Anderson non firma una pellicola d’amore, ma sull’amore, in cui è il cinema stesso a guidare il movimento perenne dei due personaggi. Basta la prima, folgorante sequenza (composta da due longtake che praticamente finiscono per incrociarsi) per delineare la natura di un film che giocherà buona parte delle sue carte attraverso il montaggio alternato e la ripetizione dei gesti, sempre in direzione opposta e, a volte, contraria, come nella potentissima sequenza del camion che va in retromarcia. Alana e Gary si cercano (con gli sguardi e con il corpo), Alana e Gary si allontanano, Alana e Gary corrono per soccorrersi (lei corre quando lui viene preso dai poliziotti; lui quando lei cade dalla motocicletta), Alana e Gary si trovano: è come se fosse il cinema stesso a farli muovere e non è certamente un caso che arrivando alla memorabile conclusione questa corsa comune vada a combaciare proprio di fronte a una sala cinematografica. Come due biglie di ferro attirate dalla calamita della Settima Arte, che possono fermarsi soltanto arrivati a destinazione. Un movimento costante e circolare, se vogliamo, come quello di un vinile (Licorice Pizza era proprio un negozio di vinili degli anni Settanta) in una pellicola in cui la musica non è semplice accompagnamento, ma co-protagonista della storia raccontata: la crisi del petrolio del 1973, che ferma anche la produzione del vinile, accompagnata da Life on Mars in cui David Bowie pronuncia «it’s on America tortured brow».

Non sono (sol)tanto le canzoni però a trasportarci in un’altra epoca, o l’utilizzo della pellicola (scelta di stile comunque anche ai precedenti, altrettanto grandi film di Paul Thomas Anderson), o le tante citazioni al cinema del passato (da William Holden richiamato dal personaggio di Sean Penn), ma è nelle atmosfere generali di Licorice Pizza che finiamo da un’altra parte, in un’epoca (che Anderson può solo immaginare: aveva tre anni nel 1973) e in uno spazio (in cui è invece cresciuto) astratti e tangibili allo stesso tempo, modellabili dalla patina della magia del cinema. Come se finissimo dentro American Graffiti di George Lucas che, non a caso, usciva proprio in quell’anno o in un film di Robert Altman o Peter Bogdanovich, richiamati alla mente come tanti altri possibili autori della New Hollywood. Oltre alla confezione generale, a trascinare noi spettatori in questo vortice emotivo è anche la prova dei due protagonisti, Copper Hoffman (esordiente figlio del compianto Philip Seymour, che con Anderson aveva dato vita ad alcune delle sue prove migliori: The Master su tutti) e Alana Haim (cantante delle Haim e anche lei esordiente sul grande schermo) capaci di formare una delle coppie più belle e sincere del cinema del nuovo millennio. Tifiamo per loro fin dalla prima sequenza e soffriamo con loro fino all’ultima. Ma, soprattutto, corriamo con loro perché abbiamo fretta di vedere, ascoltare, trovare il momento e il luogo giusto in cui innamorarci. Corriamo per raggiungere prima il (grande) Cinema, quel mondo di cui non potremo mai fare a meno.

longtake.it

Gary è un quindicenne ancora con i brufoli quando conosce Alana, che ha una decina d’anni in più. Potrebbe essere la sua sorella maggiore, non fosse che Gary ha la sensazione di amarla già. Ci vuole un attimo per capirlo, così come non ce ne vogliono di più per intuire dove e in quale decennio ci troviamo. Non serve sapere altro, se non che ci troviamo di fronte a un film che accende la vita nel suo dispiegarsi di gesti, pensieri, illusioni. Da quando conosciamo Paul Thomas Anderson, uno dei più abili narratori del cinema contemporaneo, uno di quei registi che rendono concreta quella sospensione eterna dei personaggi in vana ricerca di un mondo ideale, sappiamo che dovremo attraversare tutto il film affinché ciò che ci sembra essere vita possa compiersi, magari anche solo per un istante. D’altronde: che cosa possiamo fare di utile se non incontrare qualcuno? Che cosa possiamo fare di necessario se non crearsi delle aspettative, un domani, un qualcuno/qualcosa che ci permetta anche di sognare? Al cinema basterebbe questo per vivere. E Paul Thomas Anderson lo sa bene. Licorice pizza esce finalmente anche in Italia, dopo rimbalzi continui e con molto ritardo rispetto ad altri Paesi. È il nono film di questo talentuoso regista, che forse è un po’ troppo idolatrato dai suoi fan al pari di essere probabilmente uno dei grandi autori distrattamente evocati dal grande pubblico, perché il suo è un cinema mai banalmente racchiuso in storie di apparente complessità, ma è sempre pronto a scappare negli angoli dell’imprevedibile, sia nella coralità altmaniana degli incroci personali, sia nell’eccentricità di rapporti dall’esclusività rischiosa, come la sua carriera ricorda (Magnolia, Il petroliere, The Master, Il filo nascosto eccetera). Sì certo: Licorice pizza è una commedia romantica, un racconto di formazione. La catalogazione forse lo richiede, ma al tempo stesso il film divaga, perché forse non è né l’una, né l’altra. Si serve degli elementi emozionali per segnare i passaggi fondamentali (come nel finale a doppia corsa, che molti troveranno scontato e invece è solo di abbagliante coerenza, pensando soprattutto alla strepitosa sequenza della corsa all’incontrario del camion), ma non sacrifica lo sguardo a serpeggiamenti nostalgici, anche se siamo negli anni ’70, nella sua San Fernando Valley, la crisi petrolifera, la musica scoppia dentro lo schermo e i “licorice pizza” erano negozi di dischi (ma il film non lo dice mai); men che meno se si contano i riferimenti cinematografici (William Holden, Sam Peckinpah eccetera). È solo una storia di due ragazzi (lui è Cooper Hoffman, figlio del grande Philip Seymour; lei Alana Haim: va da sè bravissimi), che Anderson sa rendere universale in modo straordinario, vibrante cinema di esistenze instabili, distese su quei materassi ad acqua, per i quali ci scappa a un certo punto anche qualche sorriso..

Adriano De Grandis – Il Gazzettino

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